Quando si dice mangiarsi le mani

Domenica scorsa, di ritorno da una visita ai miei zii, siamo passati a visitare lo studio di Giuseppe Pellizza nella natìa Volpedo. Cioè, in verità, era già piuttosto tardi e io non avevo nessuna intenzione di fare quella sosta, ma il signor Pàpici alla fine, al di là di ogni aspettativa, mi ha convinta. Che se posso esprimere un mio fastidioso dissenso, io modestamente, lo faccio. Fatto sta che invero sono uscita dall’abitacolo dell’auto, ho costeggiato trascinando i piedi con Miss T al collo la casa ad angolo un tempo affacciata ad una bealera, ho salito una manciata di scalini e ho portato il mio umore contrariato dentro all’atelier marrone del pittore. Strana sensazione, varcare la soglia di un luogo rimasto indenne al passare del tempo. Un luogo vecchio 127 anni, con un affascinante profumo di stantio, che probabilmente c’è anche nella mia cantina, ma quello evocava senza dubbio l’Ottocento. Mentre Signorina A e Mademoiselle C apponevano le loro firme tremolanti e cubitali sul registro delle visite, ho alzato gli occhi verso la luce soffusa del lucernario zenitale che sovrastava le nostre teste a occhio e croce almeno cinque metri di altezza. Filtrava una luce davvero strana. Oddio, non avessi avuto la consapevolezza di trovarmi in un luogo sacro del divisionismo europeo non avrei avuto la potente sensazione evocata dalla luce veicolata da quell’avulso finestrone. Ma tant’è. Insomma, la visita allo studio marrone del pittore, nonostante le due giovani e preparatissime guide, è durata massimo massimo dieci minuti, chè Miss T era particolarmente contrariata di non potersi arrampicare sulla poltrona damascata di Pellizza. E’ durata comunque quel tanto necessario a farmi ricordare un altro di quei piccoli fatti dimenticati di cui son certa è costellato l’impianto neuronale di ciascuno di noi.
Il nonno materno di mia mamma, Giovanni, era molto tempo fa un vivace bimbetto dai capelli rossi, cresciuto nelle stanze della casa dei nonni, dopo che i genitori gli erano morti di tisi. Non so se fosse la moda dell’epoca o un’usanza naif di quei miei avi, fatto sta che quei nonni ospitarono a casa loro un giovane pittore per il tempo necessario alla realizzazione del loro ritratto. Il giovane pittore aveva dunque anche lui abitato per un periodo le stanze della casa di quei nonni e, chissà come, il suo estro artistico era stato catturato dalla testolina fulvocrinita del piccolo Giovanni. Ecco che mentre – magari un po’ annoiato- dava forma alle immagini dei nonni, la sua attenzione veniva irresistibilmente attratta dalle corse del piccolo di casa. -Giuanin, ven chi- ripeteva di giorno in giorno al bimbetto, che, però, non aveva nessun intenzione di interrompere le sue corse per posare per un ritratto. – Giuanin, ven chi- provava e riprovava il giovane pittore. Non ci fu verso, il giovane artista non fu esaudito e il ritratto di Giuanin rimane solo in questo racconto arrivato di bocca in bocca fino a questa pagina.
Eh, sì, quel giovane pittore era Pellizza da Volpedo.

414(Questo qui -ovviamente insieme al ritratto immaginario del mio bisnonno Giovanni- è uno dei miei preferiti di Pellizza- “Passeggiata amorosa”)

6 pensieri su “Quando si dice mangiarsi le mani

        1. ti ringrazio più che altro perchè sono piuttosto volubile e incontentabile e vorrei cambiare il motto (così come il tema, che modifico in maniera compulsiva) ogni cinque minuti e la tua approvazione mi auita a stare calma

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