La penombra al planetario

Quando avevo più o meno metà dei miei anni e stavo all’ultimo anno di liceo, ci portarono in gita al planetario di Milano.
Certo, il ciclo del cielo nella notte dell’emisfero temperato zippato in dieci minuti aveva il suo fascino. Senza nulla togliere alle costellazioni, credo che il pezzo forte fosse la penombra in cui nascondere quegli sguardi adolescenziali per lo più inutili per l’amorazzo semisegreto di turno. L’adolescenza, almeno la mia – che è stato un tempo teneramente acerbo –  era proprio penombra di sguardi al planetario.
Ma non è questo il punto.
La vera chicca della giornata fu l’avventura che la mia amica Ro e io avevamo confezionato per le due ore libere che l’insegnante di scienze ci accordò intorno al pranzo. Diciamo che trovammo una declinazione molto personale di quella libertà, senza ovviamente mettere a parte dei nostri progetti l’insegnante, per paura che potessero naufragare.

Si era deciso che, in una qualche maniera non meglio identificata, saremmo andate a fare visita alla casa discografica Soleluna, dove immaginavamo avremmo incontrato i nostri beniamini adolescenziali Jovanotti e Saturnino.

Emozionate e incoscienti, abbiamo cercato l’indirizzo sulla guida telefonica di Milano, abbiamo consultato una cartina, ci siamo messe su un pullman, siamo arrivate in una nebulosa suburbe, abbiamo percorso strade sconosciute, fino ad arrivare al civico di quella via che non ricordo più.

C’era il nome sul campanello.

Devo dire che mi sento anagraficamente giustificata a non ricordare più molti particolari di quella giornata. Però mi ricordo la determinazione di Ro a pigiare il tasto del citofono, mentre io ero già pronta a girare i tacchi, non reggendo l’emozione del drin che ne sarebbe conseguito. L’altra cosa che mi ricordo nitidamente è che, mentre Ro non si era presentata a mani vuote di fronte al suo bassista di riferimento, io non avevo previsto minimamente la fase dell’incontro. Non mi ero preparata cose da dire, cose da dare. E così all’ultimo momento avevo scarabocchiato su un foglietto di carta da formaggio un messaggio, che io, da buona adolescente che conviveva con quotidiani sturmunddrang,   caricavo di un significato cosmico. Lo ricordo benissimo quel che avevo scritto con grande orgoglio umano e letterario.
Suonava così:
“Grazie Lorenzo per essere persona e non personaggio”.

Praticamente il messaggio più banale dell’universo, che a me sembrava così geniale, allora.

Il campanello lo suonò Ro, salimmo e, siccome era ora di pranzo, ovviamente non c’era anima viva, se non una qualche signora gentile dello staff a cui affidammo il regalino di Ro e il mio bigliettino. Che chissà se mai arrivarono a destinazione. Chissà se Lorenzo ha mai letto il messaggio più banale dell’universo emerso dalla penombra emotiva di una diciottenne proveniente da un tempo così tecnologicamente remoto che ci si poteva trovare a un passo da uno dei propri miti solo con l’uso di una guida telefonica, di una mappa e di un citofono.

 

 

(L’immagine fa parte di un progetto grafico di Vincent Bal, che crea immagini dalle ombre degli oggetti)

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