Storie di paura e di coraggio

Il coraggio uno non se lo può dare, vorrebbe convincerci uno degli anacoluti più famosi della letteratura.
Quelli come me, magari possono mostrare di amare gli anacoluti, ma è uno dei loro difetti quello di essere piuttosto bassi nella catena trofica del coraggio.
Dei piccoli erbivori più che grandi carnivori.
Non leoni, ma conigli.
Forse ancora un briciolo più in basso: tipo una chiocciola, che allunga con assoluta circospezione le proprie antennine, sempre in allerta, prontissima a ritrarsi nel guscio. C’è ben poca fierezza in questo, anche perché ho retratto i miei organi di senso e ho riportato baracca e burattini nella mia zona di confort in diverse occasioni della vita, a volte con l’esito di preservare il mio mondo, ma più spesso confinandolo.
Mi vengono in mente diverse occasioni-chiocciola. Quando, per aderire ad un certo ideale di umanità o forse semplicemente ad una certa idea di me, ho aperto un contatto con Adam, l’uomo al semaforo. C’è stato un lungo periodo in cui abbassavo per pochi secondi il finestrino sorridendo, chiedevo dei figli, sporgevo una piccola spesa o il necessario per la bombola per il riscaldamento della roulotte nel campo nomadi, gli portavo qualche abito usato. Tutto nello spazio confortevole di un semaforo, tanto il verde scatta sempre e io potevo tornare nel mio guscio, con la coscienza sbiancata dalla mia falsa empatia. Quando lui ha cominciato a raccontarmi di più e a chiedermi più aiuto economico, quasi senza accorgermene mi sono ritratta. Il mio disagio, la mia mancanza di coraggio, mi ha fatto cambiare strada, per evitare, senza veramente metterlo a fuoco, quel semaforo, ritraendomi nel mio esoscheletro.
Quando mi sono appassionata attivamente alla causa abbastanza persa dei precari della conoscenza, ho fatto striscioni, partecipato a manifestazioni. Poi, una sera, non c’erano altri disponibili e mi hanno intervistata, non so più chi, forse al tg regionale. Una sovraesposizione insostenibile per un elicide, che pian piano ha infatti finito per nascondersi nella sua certosina quotidianità.
Il deficit di coraggio, per dirne un’altra, non mi ha mai concesso di imparare a schiacciare a pallavolo nelle due ore settimanali al liceo, che io trascorrevo interamente occupata a non fare figuracce, anziché a osare di imparare qualcosa di nuovo. Mi ha condotto ad un certo ritardo nell’educazione amorosa, perchè ero molto impegnata ad occultare sotto i tappeti del mio guscio (e dietro al sarcasmo da Erodaria) ogni slancio affettivo verso qualche altro minorenne sentimentale come me.


Però, alla fine, quel che è ho capito è che uno il coraggio qualche volta se lo può pure dare, a sfregio delle fulgide figure retoriche manzoniane. Io, per esempio, un po’ me lo sono dato.  Magari con la frequenza dell’accoppiamento dei panda, ma me lo sono dato.
A ventidue anni m’è venuta in testa questa cosa che dovevo assolutamente andare in Africa. Ché, in effetti, a diciotto anni avevo scelto Scienze Agrarie invece che Filosofia perché quello sarebbe stato il mio modo per salvare il mondo. Avrei sfamato l’umanità con le produzioni agrarie, questo io leggevo dietro la scarna paginetta di presentazione della guida dello studente. Mi sono messa lì d’impegno, ho finito gli esami e prima di iniziare la tesi, invece che in Erasmus, sono partita per visitare un progetto di cooperazione. Ho chiuso tutte le mie paure fuori dall’enorme valigia rigida infarcita di Lariam e Dissenten e sono partita. Da sola. Destinazione Ouagadougo. In un’epoca senza cellulare, senza mail, senza connessione veloce, con un biglietto in mano, un goffo ideale in testa, quel poco coraggio che mi sono riuscita a dare. Due mesi di libertà e coraggio.
Una volta ho persino inseguito un tipo, dopo aver assistito in diretta al furto di una bici. Dopo essergli corsa dietro urlando come una lumaca indemoniata, l’ho raggiunto in auto intimandogli la restituzione. Cioè, a volte una chiocciola può essere posseduta da un animale di grossa taglia, a quanto pare.
Vabbè, la bici poi il tipo non l’ha restituita esattamente gratis, ma questa è un’altra storia.

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