L’amministrazione della tristezza


Io il Medioevo, per come me l’hanno somministrato mentre ero studente, me lo sono sempre immaginato come un tempo crepuscolare. Lunghissimi secoli, in cui la gente si svegliava, usciva, lavorava, mangiava, giocava, faceva, disfaceva, immersa in una specie di eclissi solare perenne. Un tramonto infinito.
Ho come il sospetto che tra secoli, quando toccherà a qualche sventurato studentello adolescente imbattersi nell’analisi del nostro tempo, gli capiterà di immaginarci come cucchiaini infissi in un budino al cioccolato, circondati da una realtà marrone e un po’ melmosa, che ci lascia i respiri corti. Con il sole impacchettato in una velina scura, come la mia maglietta lasciata sull’abat-jour accesa per non svegliare Miss T che dorme. Una velina fatta di crisi economiche, di contratti che ci sono ma non ci sono, di una vaga preoccupazione per il futuro, di una gelida paura di quel presente che ci entra in casa dai decoder. Tra gli ingredienti del budino al cioccolato non ci sono solo le paure e le tristezze della nostra specie, ma anche quelle spicciole, di ciascuno come individuo. La tristezza di un’amica che parte per un po’, per esempio.

Son sempre stata dell’idea che i sentimenti, una volta che ti sono nati addosso, possano essere in qualche modo amministrati. Come piccole plantule spontanee che, una volta spuntate, vanno riconosciute, catalogate e gestite. Se appartengono a specie in qualche modo, ciascuna col suo ritmo, destinate a portare qualche dono, come succosi frutti o robusto legno o fresco lino o delicato profumo o generosa bellezza, allora vanno curati. Se portano amarezza, si fa qualche sforzo per estirparli, o almeno contenerli in qualche angolino ombroso.

La tristezza non dà frutti amari, ha una sua funzione vitale nell’ecosistema, ma non merita nemmeno una grande estensione. Diciamo che si aggiudica un’aiuoletta stabilmente fiorita, ma non tanto di più.
Nella mia cassetta degli attrezzi, per la manutenzione della tristezza, personalmente tengo tre cose: una museruola, una boule dell’acqua calda, un paio di occhiali da presbite.
Con la museruola tengo a freno i miei lamenti, non mi pare giusto che la mia tristezza vada a disseminare i suoi germogli nelle aiuole degli altri, allungando i suoi rizomi nelle felicità altrui.
La boule mi serve a scaldarmi la pancia, quando la tristezza apre spifferi freddi nelle mie giornate. La riempio di ricordi caldi, di giornate allegre, di chiacchierate, di spennellate di smalto e prove di acconciature clandestine (poi basta, altrimenti l’aiuola della tristezza la irrigo delle mie lacrimuccie da cuore di tonno pinna gialla che si taglia con un grissino, e ora un’irrigazione è l’ultima degli interventi di gestione che merita l’appezzamento).
Gli occhiali da presbite li inforco per mettere a fuoco tutte quelle minuterie che al primo sguardo parrebbero insignificanti e che invece val la pena di guardare due volte. Sono i punti e i nodi che compongono le maglie del pulloverino di gioia con cui rivesto il tonnocuore, mentre lo porto a fare i suoi bisogni in giro per le mie giornate.

 

 

(L’illustrazione è di Antonio Boffa per “La paura è fatta di niente”)

24 pensieri su “L’amministrazione della tristezza

      1. Perfetto, trovata e iscritta. Complimenti ancora. Ti ho condiviso nel mio gruppo f.b. M.A.M.A. ( movimento anonimo mamme apprensive- un gruppo di mamme e non in cui parliamo di tutto un po’), scusa se non te l’ho chiesto prima, ma era molto bello, P.s. se sei su F.B. e hai voglia di unirti a noi, ti aspettiamo!

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