Lasciamoci vivere, l’etichetta la metteremo dopo

 

Spesso a un genitore viene chiesto com’è suo figlio. Qualche volta la domanda viene semplificata e rivolta persino al bambino stesso “Sei buono?” “Sei un po’ monellino?“.

Personalmente non so mai come rispondere, specie quando la domanda mi viene rivolta relativamente alla diversità caratteriale tra Signorina A e Mademoiselle C, che sono gemelle.

Chi è la più tranquilla? Chi la più spigliata? Chi la più intelligente?” mi si chiede da più parti.

Francamente, non lo so.

Talvolta questo non saper fornire attributi netti per descrivere il carattere delle mie bambine mi fa sentire una cattiva osservatrice, mi fa nascere il sospetto sotterraneo di non essere esattamente all’altezza.

Questa sensazione sgradevole mi passa, però, quando nel lavello tra i piatti e le pentole mi ritrovo a lavare un barattolo di vetro apparentemente innocuo, ma che reca un’insidiosa etichetta sulla sua superficie esterna. Questi maledetti foglietti illustrativi vengono appiccicati sui barattoli con una diabolica colla, che viene via solo dopo diverse ore di ammollo e al prezzo di centinaia di colpi di paglietta. Difficilissimo staccare un’etichetta da un barattolo di vetro. Assai più impegnativo, se possibile, scrollarsi di dosso una caratteristica caratteriale.

Dio solo sa quanto ciascuno di noi abbia desiderato con tutte le forze di smettere di essere in un qualche diavolo di modo che qualcun altro aveva deciso per lui. Timido, secchione, seduttore, logorroico, bugiardo, silenzioso, fancazzista. Ognuno ha la sua personale gamma di etichette da scollarsi di dosso con fatica. Come se uno non potesse davvero essere abbastanza creativo da permettersi di essere cose diverse allo stesso tempo o – magari- concedersi il lusso di cambiare, di evolvere.

Penso sia una buona idea usare le etichette per i barattoli delle spezie, che non sai mai se il giallino è della curcuma o del curry; per le marmellate, per esser certi di finire quelle dell’anno scorso prima di cominciare quelle di quest’estate; per lo zucchero e il sale fino, che il caffé salato non è mai un granché.

Cercare di non appiccicarne alle persone che ci stanno intorno, invece, mi sembra un segno di sana solidarietà umana.

 

24 pensieri su “Lasciamoci vivere, l’etichetta la metteremo dopo

  1. Etichettare gli esseri viventi è per me segno di chiusura mentale, è volontà di ingabbiare, controllare e frustrare. Viva ogni giorno nuovo con il suo bagaglio di esperienza che ci fa cambiare e trasformare ❤️

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  2. Sfondi una porta aperta. Secondo me, però, a volte ci sono anche etichette ‘subliminali’, date in modo poco chiaro ma lasciate intendere con insistenza. E alla fine ti leggi così, con quella definizione che ti hanno messo addosso come un’aura. Magari senza accorgersi.

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  3. E perchè poi i bambini debbano essere categorizzati solo come “buoni” (che vuol dire che mediamente non rompono le scatole agli adulti) o come “monelli” (che rompono le scatole)? Come nella profezia che si autoavvera, chi è etichettato finisce per assomigliare all’etichetta. Io vorrei che la gente chiedesse cose come “qual’è il suo gioco preferito? E il suo colore preferito? Che favola adora leggere?”…roba così, insomma.

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