Il magico potere del guardarsi i piedi, camminando.

L’altro giorno, il Signor Pàpici ha fatto selezione di scarpe primaverili in buono stato appartenute a Mademoiselle C e Signorina A, che possano ora fare al caso di Miss T. Tra le altre,  ecco che abbiamo visto riapparire un paio di sandaletti coi buchini color ciliegia. Un tuffo al cuore. Anzi, un tuffo del cuore verso il tempo in cui quei quattro piedini erano delle tenere pagnottelle da mordicchiare prima di andare a letto. Certo, ancora adesso che non hanno ancora sfiorato il traguardo della misura trenta, sono dei teneri filoncini, a cui la sera togliere le pallottole di sporco tra le dita, che il lessico familiare ha battezzato i nerini (chissà se Miyazaki approverebbe). Però quello dei sandaletti color ciliegia mi sembra un tempo lontanissimo. E a loro lo sembra ancor di più. Come se il tempo, al tempo dei bambini, scorresse più lentamente che il nostro e il passato diventasse remoto con più disinvoltura.

Nell’era preistorica in cui io e il Signor Pàpici rispondevamo semplicemente ai nostri nomi di battesimo e nessuno sulla faccia della Terra sognava minimamente di chiamarci mamma e papà, abbiamo intrapreso il Cammino di Santiago. Una settimana da Saint-Jean Pied de Port a Estella, se non ricordo male. Centoventi chilometri in cinque giorni, fatti contravvenendo tutti i principi base della camminata sportiva. Zaino di dieci chili in spalla con pesantissimi abiti e asciugamani in cotone anziché in tessuto tecnico: da pivellini. Zero allenamento: da sciagurati. Scarpe nuove ai piedi: da deficienti.

Un’esperienza meravigliosa, nonostante il peso sulle spalle, la fatica sulle gambe, la tendinite ai piedi. Un esercizio di lentezza, di accordo ai tempi della natura, di sana costrizione alla velocità dettata dal proprio passo. Ricordo distintamente la sensazione di disperazione che mi davano i campanili in lontananza, che assumevano i contorni sfocati di un miraggio. Ricordo la straniante sensazione di camminare in meravigliosi paesaggi di colline col frumento dorato e di provare al contempo la lancinante sensazione di non riuscire ad arrivare laggiù, dove avremmo trovato un ristoro. Un panino al salame e acqua fresca. Ma ricordo anche distintamente che se, al posto di guardare il traguardo all’orizzonte delle colline dorate, guardavo giù, guardavo i miei piedi stritolati nelle mie pedule nuove e doloranti, vedevo che a ogni passo la strada passava, ne lasciavo via via un pezzo indietro. Ricordo di come questa vista mi desse un enorme sollievo e la forza necessaria ad arrivare. E, ci si può giurare, poco a poco, sono sempre arrivata a destinazione.

Il tempo dei bambini va piano, molto più piano del mio e, come sempre, io ci vedo una lezione da reimparare. Non c’è un traguardo che loro riconoscano come tale, una qualsiasi meta che li faccia disperare di non riuscire ad arrivarci.
Loro si guardano i piedi, loro viaggiano senza sapere per dove.

Chissà, forse è per questo che, lenti lenti, si godono il viaggio.

24 pensieri su “Il magico potere del guardarsi i piedi, camminando.

    1. allargare l’orizzonte, certo, ma poi non restringere lo sguardo alla meta per essere assoggettati all’ansia. Quel che intendo è godersi il percorso, allineare i desideri al ritmo del nostro passo, almeno qualche volta, almeno un po’

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      1. c’è sempre un equilibrio…quello che ho scritto l’ho scritto perché le tue parole hanno evocato in me tante escursioni, tanti trekking fatti nella mia vita prima dell’arrivo di Mister Z e di Monsieur C (mi perdonerai se prendo in prestito il tuo modo di appellare “le pesti”) e il mio pensiero è andato a quei momenti molto duri di salita senza speranza, di fatica senza soluzione nei quali il guardarsi i piedi non era un godersi il cammino ma piuttosto un restringere l’orizzonte nel tentativo di accorciare “la lunghezza della sofferenza”…

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          1. spesso mi capita di non riuscire a spiegarmi come vorrei…non credo che si tratti di un fatto negativo…dico solo che secondo me non va confuso il “godersi” il cammino con il restringere l’orizzonte al fine di superare un momento di emergenza…per me godersi il cammino è decisamente legato a quei pochi momenti in cui il sentiero si muove in pianura…lo zaino non mi sembra tanto pesante…la meta non è troppo lontana…il vento è leggero e il sudore fresco…il giorno sta morendo piano…raro…effimero…come rara ed effimera è la felicità…

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    1. certo che lo è, bello; quel che intuisco è che è anche opportuno, talvolta, riallinearsi ai ritmi del proprio incedere naturale, chè guardare troppo in là può essere fonte di immotivate ansie

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  1. Il cammino di Santiago è uno dei miei progetti futuri, e conosco quella sensazione di guardarsi le scarpe mentre si cammina sotto il peso di uno zaino (reale o emotivo che sia), vedere i piedi che vanno avanti nonostante la stanchezza, come se si muovessero automaticamente. Lo trovo un modo bellissimo che il nostro corpo ha di portarci avanti anche quando la testa vorrebbe solo sedersi.

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