La Cicci

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Ottimo, allora domattina alle 10 passerà mia mamma a ritirare le chiavi – ci risponde sabato sera F., dandoci un riferimento preciso del momento in cui la deliziosa casa del fotografo tornerà ad essere sua.

Una scala verde salvia che si abbarbica su un terrazzino abbracciato da una pergola di legno. Un minuscolo lavandino in pietra vigila sull’ingresso che ci inghiotte in un sol boccone nel mondo di un fotografo che non c’è più e che insieme c’è ancora. C’è in questi vecchi muri anni ’40, spessi e freschi, che raccontano in decine di vecchie foto di una città che  c’era e ora non c’è più. Di un mondo di pescatori e bottegai, di un tempo – ora impensabile- che sta prima della costruzione dell’Aurelia. C’è nel pavimento di graniglia bianca e nera, c’è nelle vecchie macchine fotografiche allineate sopra alla cucina moderna, c’è nella raccomandata incorniciata dove si attesta la vittoria di una Fiat 500 ad un concorso fotografico. C’è, eccome, nel ritratto in bianco e nero, di lui- il fotografo che ha abitato questa piccola casa fresca sopra la sua bottega- che addenta un panino, davanti ad un vecchio pullman.

All’avvicinarsi delle 10 di domenica mattina, come pattuito con la sorridente F., custode di questa piccola casa e della memoria dello zio fotografo, abbiamo assiepato i nostri zaini di viaggiatori del weekend vicino all’entrata di questa piccola casa, nostra per due giorni.

Per me che amo poco davvero gli alberghi, potermi infilare in case vere con persone vive e allegre mi pare sempre un gran regalo. Che sia benedetta nei secoli l’idea dell’home sharing. Amen.

Alle 10 arriva la mamma di F., per l’appunto. L’annuncia il colpo dell’apriporta ai piedi della scala verde salvia, lei fa capolino poco dopo sotto la pergola. Alta, snella, piccoli occhi vispi, corti capelli canuti, la pelle di chi ha vissuto molto all’aria aperta e non teme di mostrare al mondo che ha goduto molto del sole e del vento.

Che dispiacere che ve ne andiate già– esordisce lei, spazzando con un soffio la nostra reciproca non conoscenza – che bello sarebbe poteste restare ancora un po’ qui-. Come se ci conoscessimo, come se avesse scavato istantaneamente un posticino per noi nella sua famiglia.
Non riesco mai a dire arrivederci, mi viene sempre un groppo alla gola– mi confessa, con i piccoli occhi vispi bagnati di lacrime. Non ci conosciamo che da due minuti e questa donna bella – che al primo sguardo mi pare un compendio di “v”: vivace, volitiva, verace, vitale, un vulcano- si sta commuovendo davanti ai miei occhi per la nostra partenza.

E quel che è vero è che non mi pare per nulla strano, perché come è lei sono io. Glielo dico, ci sorridiamo. Lei mi racconta la sua vita in poche pennellate, come di un artista che sa  rendere un paesaggio in pochissimi gesti. In un attimo, la conosco da un po’. Glielo dico, le dico che mi pare una donna allegra, festosa.
Oh, lo sono stata molto, molto di più, ora sono cambiata– gli occhi vispi le si velano nuovamente di lacrime, mentre la bocca sorride con ostinazione. Mi racconta della malattia improvvisa che le ha portato via l’amore dopo cinquant’anni d’amore.- Un uomo forte, tenace, un toro-.

Sono passati sette anni, ma per la Cicci, questo l’ho capito, il tempo non ha molta importanza. Per la Cicci, che è capace di farti un posticino nella sua famiglia nel tempo di una chiacchiera sotto una pergola, sette anni possono essere nulla.

Poi, inaspettatamente mi abbraccia – Sono triste, ma dopo la tempesta viene sempre il sereno-riprende a sorridere. Sorride mentre mi riempie lo zaino di limoni profumati, sorride mentre distribuisce festosa alle bimbe le vecchie stampe fotografiche di Finale, sorride salutandoci con la mano dalla finestra sopra la bottega del fotografo.

Che meraviglia, la Cicci, che forza della natura. Sorrido, pensando a lei.

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