-Mamma, perché stai ridendo?- mi chiede Mademoiselle C, sorprendendomi imbambolata a bordo pista durante un’assolata domenica montana.
– Mi piace guardare tutta questa gente. C’è veramente tanta gente, Mademoiselle C, guarda che roba-le dico, mentendo solo un po’. Il mio sorriso gigantesco non è solo dettato dalla meraviglia antropologica. C’è un sole che di per sé spaccherebbe le pietre, che rimbalza su un perfetto manto nevoso facendo l’effetto di diecimila tempeste solari. Roba che per rimanere impassibili ci andrebbe una maschera da saldatore.
Ma la radiazione solare potenziata dalla neve non è nulla, dicevo, a confronto dello spettacolo che si staglia davanti a me.
La concentrazione umana non è seconda alla Pelosa, nota spiaggia sarda di cui non è possibile conoscere con certezza il colore della sabbia, perché mai occhio d’uomo ha potuto scorgerla sotto la coltre di asciugamani, ombrelloni, secchielli e rotocalchi rosa.
Tra l’altro arrivano incessanti refoli di crema solare, per cui non è difficile immedesimarsi nella facile similitudine.
Pare che si sia sfiorato un primato da guinness, nella categoria concentrazione della scritta “quechua” per metro quadrato.
Perché il top dell’osservazione antropologica è sull’abbigliamento montano.
Abbinamenti cromatici rigorosamente nella tonalità del fluo, che a confronto la Rettore era Audrey Hepburn. Roba che forse il vero abbaglio lo danno l’insieme di tute e giacconi, mica il sole.
C’è veramente di tutto: lo sprovveduto in jeans e stivaletto di pelo, che alla prima lastra di ghiaccio scalerà di un colore la tonalità del denim e si ritroverà il tessuto fradicio a contatto delle cosce per il resto della giornata. C’è la Ferragni della pista, col colbacco in volpe artica in pendant coi MoonBoot argentati (a proposito: ma perché nella traduzione nostrana li abbiamo trasformati in monbut anzichè munbùt? Vai a sapere). C’è il rétro che ammortizza l’esoso acquisto risalente ad almeno un paio di decenni fa (la roba tecnica costa un sacco e usarla un paio di volte a inverno non provoca significativa usura, ndr) sfoderando tute anni Ottanta che nemmeno più i benzinai metterebbero con disinvoltura. Nelle campagne piemontesi li chiamiamo Toni, quelle tutone da lavoro ideali per le scorribande in trattore.
C’è la madama rustica che è salita fin quassù solo per un pic nic domenicale e sfoggia il cardigan buono mentre apparecchia di tutto punto l’apposito tavolino in mezzo alle piste. Se non ha preparato la parmigiana, è solo a causa della stagionalità del suo orto.
Ma i miei preferiti sono gli sciatori.
Loro sono l’apice della scala evolutiva della domenica invernale. Scendono con grazia immensa le piste, mentre noi genitori maldestri stiamo apparecchiando trenini di bambini, che spesso son davvero troppo affollati su minuscoli bob o, peggio, stiamo reggendo tonnellate di giacche a vento e guanti abbandonati. Loro volteggiano eleganti, veloci, liberi come l’aria, mentre noi stiamo sudando selvaggiamente per riportare i nostri sovraffollati bob su in cima alle brevi discese dedicate.
Quando li rivedi a fine giornata, mentre si avviano lentamente verso l’auto, li trovi che ondeggiano malamente nei loro scarponi, producendo incessanti cigolii o, in alcuni casi, imbarazzanti sbuffi d’aria che ad ogni passo, brum, è un colpo di petofono.
Comunque, a piste chiuse, anche il più figo degli sciatori si mette mesto in coda con noi poveri mortali. Ed è subito lunedì.