Stamattina una giovane amica di Miss T, davanti alla scuola mi ha raccontato un sogno della scorsa notte, nel quale litigava proprio con Miss T e altre compagne, precisandomi, poi, che lei già piange tutti i giorni, e che era dispiaciuta di doverlo fare anche di notte. I dolori e le tristezze dei bambini, noi adulti, che ci siamo un po’ dimenticati delle strane regole che governano i cuori di questa specie aliena da cui discendiamo, o li derubrichiamo come delle sciocchezze o, all’esatto opposto, li viviamo come enormi massi che, cadendo sulla nostra strada, ci tolgono la possibilità di aggirarli e di vedere oltre. A loro chiediamo spensieratezza, a costo e in ricordo della nostra. E in nome di questo, a volte, alcuni di noi sono in grado di trasformarsi in supereroi che non pensavano lontanamente di essere. Io, quando ne vedo uno, di questi adulti qui, lo abbraccio con tutti i miei pensieri migliori.
La vita ognuno se la racconta come può e come vuole. Ultimamente me la racconto in due modi. La dico come qualcosa che mi spezza e mi trascina, come una grande mano che mi prende come si fa con un grissino e con un colpo secco mi rende due metà che devono nuotare in una corrente impetuosa tentando di restare agganciate. Non è una gran bella immagine, mi rendo conto. Grazie ad una lettura fortuita e felice, mi racconto che forse mi trovo semplicemente in uno spazio liminale, in una condizione di mezzo, in una fase di cambiamento e ridefinizione di identità. Di ragioni per pensare di essere lì, ne ho molte. Ma in questo tempo, comunque, dentro e fuori, continuano a succedere tante cose, alcune molto belle, alcune altrettanto brutte. Ho sempre detestato le stanze e i corridoi degli alberghi, non ci vado mai, se non in pochissimi casi obbligati. E ora mi sento come se mi ci trovassi dentro.
Una mattina presto ho accompagnato Signorina A al pullman della gita sotto uno scroscio di pioggia tropicale. Quando ho fatto per uscire dall’auto, lei mi ha detto dolcemente: “Ciao mamma”. Non c’era più bisogno di me ai piedi del pullman, ovviamente, ma io, assonnata, non lo avevo messo a fuoco coi tre anni di Covid di mezzo, che si sono mangiati le gite della preadolescenza. E così sono tornata verso casa e, mentre guidavo, nei corridoi anonimi dell’albergo in cui mi aggiro si sentivano voci diverse da quelle attese. Avrei giurato di sentire una voce di giovane mamma singhiozzare per il tempo perduto e invece ho sentito la voce di un’altra mamma (una che, a sorpresa, sul segnaposto di un grande pranzo in famiglia ha voluto che fosse scritto “Chiara” invece che “mamma”) che provava un grande sollievo e una specie di orgoglio verso queste figlie che sono capaci di diventare grandi.
A volte penso che non sarebbe male accettare la transizione, smettere di sperare di guarire dai pensieri che non so dire ma volergli un po’ bene e lasciarli lì a fluire, imparare a parlare quella lingua straniera e misteriosa che si parla nei sogni, dove le cose accadono senza bisogno di trovare metafore per definire le moltitudini di cui siamo fatti, o confini per disegnarne i contorni o parole per provare a restituirne un senso.
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