Trovarsi diversi

La parola nuova che ho imparato come uno dei tanti piccoli esercizi estivi che sto provando a fare e che ho descritto sui Liberi Sentieri è abuntu che in lingua swahili significa fratellanza. Mi ha trovata da un libro, che non consiglio a nessuno, anche se la sua bellezza mi sta sorprendendo. Non ne cito il titolo, né ne caldeggio la lettura perché è fresca in me la consapevolezza che quello che piace a noi può fare (e spessissimo lo fa) un effetto completamente diverso negli altri.
Per esempio, un romanzo che ho amato tantissimo e che Mademoiselle C ha come lettura estiva in vista dell’inizio delle superiori, per lei non è stato per nulla un’esperienza piacevole. Un po’ mi ha fatto dispiacere, ma è anche così bello vedere come persino chi sentiamo più vicino, proprio questi figli che non sono noi, sono diversi in tutto da noi. Certo, la sua fatica potrebbe avere a che fare con l’imposizione della lettura, che sono convinta sia una pratica che non ha nessun potere di avvicinare ma, anzi, ha il solo esito di scoraggiare. Forse, chissà, ha ragione quello scrittore che è stato anche per lunghi anni professore di italiano alla secondaria che, in un’intervista recente, ha detto che i bambini dovrebbero fare esperienza della magia creatrice della parola ed è da lì, da quell’esercizio primario di suoni che possono essere scritti e, uno dietro l’altro, formare parole di senso, le quali a loro volta possono essere infilate a formare storie, è da quella magia lì che può nascere la passione per la lettura. Resta un mistero a cui dedicarsi diligentemente.

Ieri passeggiavo con quattro ragazzini sotto l’Hotel Roma a Torino, di fronte a Porta Nuova, con un gelato in mano, in attesa di vedere un meraviglioso film di animazione. Lì, nella stanza 346, nell’agosto del 1950, quando non solo io, ma nemmeno la mia mamma eravamo nate, moriva Cesare Pavese, per sua volontà. Ogni volta che passo lì sotto vola un pensiero a un uomo che non ho conosciuto e che da quest’anno ho superato in età. Tra le parole che ha lasciato lì, in quella stanza, tutte dentro una copia di un suo libro di poesie, tengo strette, oggi: “Ho dato poesia agli uomini“. Quella sua poesia, la ritrovo, oggi, nella chiusura di una lettera scritta ad un amico: “Che le rose fioriscano sul tuo sentiero“. Non ho mai amato le rose, ma trovo una struggente bellezza in questo augurio, fatto da un uomo a un uomo, che mi fa venire in mente uno dei versi che mi porto dietro nei vari tornanti della vita senza riuscire a lasciarlo andare, che è “Che proveresti tu se ti fiorisse la terra sotto i piedi, all’improvviso?”, che è di D’Annunzio, un personaggio che per il resto sento lontanissimo. Questo mi fa venire in mente una di quelle cose ovvie, quelle cose banali che realizzi veramente in rari momenti di lucidità, e cioè che quello che sentiamo vicino alla parte più nascosta di noi, la bellezza, l’incanto, la meraviglia, non lo so, quelle cose lì, si annidano anche dentro alle cose scure e viceversa, e che è un destino senza via di uscita che tutto sia mescolato. Che tutto sia confuso è venuto fuori in una conversazione recente con una persona con la quale parlo a ventimila leghe sotto i mari tutte le volte che ci incontriamo, anche se può accadere a distanza di molti mesi una volta dalla precedente e se tra quelle rade conversazioni non c’è mai spazio nemmeno per una telefonata. Lui di me dice, senza fronzoli né preamboli, che penso troppo. Questa osservazione, vera ai limiti del fastidio, la metto insieme a quella di un’altra persona che, in un momento decontestualizzato mi ha detto che parlo troppo difficile. Vero ai limiti del fastidio anche questo. E ancora, e nemmeno so perché, lo metto insieme a chi mi ha detto, due persone che non si conoscono direttamente, che la mia stanchezza, quando riesco a manifestarla, li rallegra. E una di queste persone è Mademoiselle C, la quale, insieme a Signorina A e a Miss T mi accorgo che gioiscono come mai prima, per gli scoppi fragorosi delle mie risate. Forse è così perché sono più rari o forse, come sempre, sono io che la faccio più complessa di quello che è. Comunque sia, aspetto il momento che le risate grasse tornino ad essere tante e, proprio per questo, ignorate come gli abiti di tutti i giorni.

Tutto è confuso, dunque. D’altra parte Signorina A, appassionata di mitologie varie, mi ha ricordato di recente che l’origine di tutta la creazione per i greci è Chaos. La divinità primigenia è il disordine. Il conversatore delle mille leghe sotto i mari mi ha detto che, invece che ostinarmi, affidandomi unicamente al mio troppo pensare, a cercare di dissipare la confusione che ho dentro, dovrei semplicemente sedermi e guardarla. Questo, oltre a farmi una paura grandissima, lo metto insieme ad un’altra lettura che mi sta un po’ accompagnando, anche lei, che sono degli scritti sulla genitorialità di una donna antifascista (non cito il titolo, per le ragioni di cui sopra, se qualcuno vuole, mi chieda), nei quali, già negli anni Sessanta. lei lamenta i tratti adolescenziali degli adulti di allora, che, a suo parere, non erano in grado di offrire modelli solidi ai figli (in senso ampio), con (o contro) i quali confrontarsi nel bene e nel male. Chissà come sto andando come modello; il peso che sento è molto, l’autodisciplina a tratti fragile, le intenzioni profonde, i risultati chissà.

Cesare Pavese, in quel 27 agosto, lasciò anche scritto “Ho conosciuto me stesso” e anche questo, oggi, lo tengo stretto. Come una specie di pratica necessaria, un imperativo intimo, come il sedersi e sentirsi respirare guardando dritto negli occhi la propria confusione, come accettare di essere a tratti un groviglio e non il filo lineare di una trama rassicurante. Come accettare la verità che si è sempre diversi e che tutto è diverso, di attimo in attimo a dispetto delle nostre unghie ancorate sulla scivolosa superficie della normalità che ci tranquillizza.

Dalle mille leghe sotto i mari arriva anche un’altra osservazione preziosa: ma che sciocchezza è quando vedi qualcuno dopo un po’ di tempo e gli dici “ti trovo sempre uguale” pensando di fare un complimento?

In effetti, io, quando ho il coraggio di cercarmi, mi trovo sempre diversa.

Uso puntini di sospensione dopo aver teorizzato il loro orrore per anni (ma non dappertutto, eh, ci sono ancora posti dove sapientemente ne faccio a meno), leggo più libri contemporaneamente come ho sempre trovato fastidioso prima d’ora, convivo con sentimenti faticosi mai sperimentati prima, faccio complimenti anche agli estranei se sono onesti, ho lasciato indietro paure che prima erano giganti, ho chiuso a chiave alcune stanze e ne ho scardinate altre, ho trovato delle parole che non riuscivo nemmeno a immaginare di cercare, riconosco una voglia matura di abuntu, di impegnarmi in qualcosa di un ordine di grandezza un po’ più grande del solito, e ho la ragionevole certezza che tutto questo si modificherà e che sta già cambiando un pochino.

(Illustrazione di Mayra Arvizo)

2 pensieri su “Trovarsi diversi

  1. Buongiorno Chiara e buon fine settimana. In casa mia di libri ne ho tanti e anche quasi tutti quelli che ho letto da bambina e poi da ragazza. Beh, ti do ragione, anche mia figlia non ha mai amato i libri che avevo amato io e letto con vero piacere. Del resto, i libri che legge lei a me non dicono nulla, mi sono sforzata di leggere alcuni autori sia italiani che stranieri che a lei piacciono molto, ma non c’è nulla da fare: il gap generazionale è troppo grande, i tempi e i gusti troppo diversi.

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