Andare avanti e basta

Un caro amico mi dice: scrivi. E lo so che non lo dice per leggermi, perché non mi legge quasi mai, non leggerà nemmeno questo. Non gli piace, è pigro, forse quel che metto nero su bianco a lui non interessa, non lo so. Il punto, quindi, è che quando mi dice quella roba lì, il suo imperativo, “scrivi”, è perché conosce che potere abbia su di me questo gesto. Non importa quello che produrrò, quel che importa è che sistemerò dei pensieri. E io di pensieri da sistemare, come tutti, ne ho tanti davvero, un po’ come quelle vecchie case, abitate da decenni, in cui si accumulano cose che per sentimentalismo non riusciamo a buttare via, ma nemmeno a collocare in maniera davvero funzionale.
Una parte di me è sempre stata convinta, e lo è ancora, che la vita è come uno se la racconta, che ogni accadimento possiamo viverlo, interpretarlo, incasellarlo, possiamo reagire in modi diversi, ognuno i suoi, ognuno giusto. È vero, lo penso, ma riesco a vederlo chiaramente solo negli altri, come un buon editor che sa reindirizzare i racconti degli altri verso un miglioramento, ma che non è in grado di vedere i difetti delle proprie storie.
Ecco che di recente ho messo in luce un altro aspetto: essendo sempre stata, o almeno avendo creduto fermamente di essere, un’anima fortemente razionale, da qualche parte in me abita la certezza che esistano dei fatti inequivocabilmente oggettivi e, in forza di questo, prendo degli abbagli giganteschi, confondendo talvolta la mia percezione come l’unica possibile, come la verità oggettiva. Kant, dove sei, quando servi? E, quindi, con un dispendio di energie gigantesche, da un po’ di tempo a questa parte sto provando a rimuovere la certezza granitica che mi piglia ogni tanto (e che ora cerco di riconoscere) che il mio “modo” di vedere le cose sia quello universale e riconosciuto come migliore. Ce la faccio? Non tanto, ma ci provo.
Un giorno prezioso di questa settimana, un giorno nel quale mi sentivo particolarmente stanca a causa di evidenze oggettive e un po’ di ingredienti emotivi avversi di produzione propria, ho accompagnato la mia amatissima classe di tirocinio presso l’RSA della nostra città. Molti sono stati gli attimi brillanti di quella mattinata, ma su tutto ci metto i viaggi di andata e ritorno a piedi, mano nella mano con M, che ha perso il mese scorso sua nonna e che, dietro alle sue meravigliose ciglia che custodiscono occhi limpidi e dolcissimi, è abitato da quegli interrogativi profondi e insolubili che riguardano la morte e la vita. “Secondo te, cosa ho fatto di male perché nonna morisse proprio qualche ora prima del mio compleanno? Sono davvero un bambino così cattivo?”. Ricacciando indietro quelle lacrime che ogni tanto mi bisbigliano che sono abitata da un’emotività sotterranea e potente, ho ragionato con lui che probabilmente è stato solo un caso, ma che, forse, d’ora in poi c’è un modo ancora più forte per pensare al loro legame, perché sono uniti anche da due momenti fortissimi delle loro vite, l’inizio e la fine. Che forse si poteva pensare non come una punizione, ma come un regalo, del caso. “Sai qual è l’unico momento in cui riesco a non pensare a lei?”, mi ha chiesto ad un certo punto, tra una barzelletta e l’altra. “Quando pattino: lì penso solo che devo andare avanti, devo andare avanti e basta”.
Un anno scolastico incredibilmente in salita sta terminando, tra poco più di un mese lo sarà anche la sessione di esami di un terzo anno universitario davvero impegnativo. Sabato scorso ho avuto una inattesa lunga chiacchierata con una persona cruciale della mia vita lavorativa precedente. Sono stata onesta nel raccontare le verità di questo mio percorso meravigliosamente oneroso. Al termine di quelle che, a mia percezione, erano tutt’al più sfoghi un po’ lamentosi, lui, proprio lui che ha avversato questa scelta mi ha guardato e ha detto:”Si vede che sei felice”. Chissà da quale fessura del racconto o inclinazione della voce l’ha visto. Fatto sta che quella conversazione, quella frase lì, mi è sembrato un armistizio.
Non c’è niente di più difficile che comprendersi, forse per questo è così inerpicata, oscura ma preziosa la strada per la pace. E quando dico “comprendersi”, intendo riuscire ad entrare profondamente in comunicazione con l’altro, accettarlo, ma anche, nel mio caso la parte più in salita, cercare di conoscere sè stessi a tempo indeterminato, sapendo di essere inafferrabili e totalmente non aderenti ai nostri desideri e immagini preconfezionate, come figurine attaccate fuori dal riquadro definito dalla numerazione dell’album. Socrate, dove sei quando servi?
Tutto può essere allenato, anche questo mi sembra di aver capito di recente. Anche la comunicazione, ogni relazione, la propria emotività, le illusioni e immagini che la nostra mente genera, la certezza che le uniche reazioni su cui abbiamo potere e responsabilità sono le nostre, tutto davvero può essere curato e migliorato, con fatica certo, ma anche con soddisfazione. E quanto meno l’ho fatto nella vita finora, tanto più è necessario farlo ora, anche quando mi sembra un’impresa impossibile. Insomma, lo dice anche M, che a 10 anni ha già capito che, in fondo, la cosa davvero da fare è andare e avanti, andare avanti e basta.

[Illustrazione di https://www.instagram.com/studiolooov/%5D

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