Il tempo delle stanchezze

Conoscere sé stessi, diventare chi si è resta un viaggio necessario, ma stancantissimo e infinito. Forse è semplicemente un inseguimento nel quale chi cerca e chi scappa sono la stessa persona, che, tuttavia, ad ogni passo cambiano entrambi un pochino le loro sembianze, faticando, poi, a riconoscersi.
Conosco e frequento molte persone, spesso ascolto i loro racconti in varie forme e amo particolarmente chi ha fatto di questo viaggio una quieta passeggiata, senza speranza e senza disperazione, sapendo che ogni minuto che passa affina la qualità del processo ma non avvicina veramente al risultato finale, che è e rimane inafferrabile.
Mai mi è stata più chiara e più cara di adesso la frase “Lasciamoci vivere, le etichette le metteremo alla fine” di Claude a Muriel nel film di Truffaut “Les deux anglais et le continent”. Conoscersi è l’esatto contrario di catalogarsi, è staccare le etichette e non metterne di nuove. E forse è anche accordarsi il tempo necessario per ogni cosa, dirsi ed accogliere profondamente che qualsiasi cosa ha bisogno del suo tempo.
E per me questo è un tempo di stanchezza, è un tempo di stanchezze. Sono stanca di quasi tutto: dell’esteriorità ostentata, della mia faccia nelle foto, dello studio, dell’impegno, del far felici, del decifrare gli altri, del trovare soluzioni, del 730 e della NASPI, del mio neo peduncolato sul collo, dei social, delle intimità ostentate, delle cose non dette e di quelle sbandierate, dei sentimenti nascosti e di quelli gridati, della noncuranza mia, della noncuranza altrui, del troppo pensare, delle occasioni mancate, delle citazioni senza contesto, di quelle frasi ad effetto, dei morsi di canzoni, del mostrarsi forti, delle discriminazioni, della fortuna, delle responsabilità, del mio ferreo senso del dovere, della solitudine, ma anche della compagnia, della vicinanza, ma anche della lontananza, delle certezze e dell’intederminatezza, delle maschere, delle cose ambigue, delle aspettative degli altri su di me e di me su di me, della mia corazza e di quei lunghi aculei, delle attribuzioni, del mio intuito che quasi sempre ci prende, delle interpretazioni sbagliate e pure di quelle giuste, dello sguardo severo che mi rivolgo costantemente, delle cose anche bellissime che gli altri vedono in me e a cui io vorrei reagire con qualcosa di sommesso, tipo “grazie ma ti sei sbagliato, io non ce la posso veramente fare, tu vedi cose che io non sono”.
Sono stanca della parola accettare, preferisco accogliere.
Ecco, toh, forse se c’è una cosa di cui non sono stanca in questo mio tempo di stanchezze è di accogliere e di sentirmi accolta.

[Illustrazione di https://www.instagram.com/mimochai/]

3 pensieri su “Il tempo delle stanchezze

  1. Molto profondo quello che hai scritto, e probabilmente è proprio il senso del conoscersi, perché come in tante cose ciò che vediamo prima è ciò che vorremmo cambiare, mentre le cose belle, quelle che vedono gli altri, ci sembrano quasi nascoste.. Non si smette mai di esplorarsi 💚

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  2. Conoscersi è scavare a fondo senza pietismi, senza concessioni, senza scusanti. Ho 76 anni, ed è da molto tempo che cerco di conoscermi e di capire, ci sono in parte riuscita, ma non ancora del tutto. Non c’è ovvietà in questo lavorio che è simile a quello dell’acqua sulla pietra: logorante, stancante, spesso frustrante perché, quando pensi di aver raggiunto un obiettivo ti si presenta subito un’altra incognita e non ci sono molte regole da poter applicare, solo una nuda e cruda ricerca della verità.

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