Quando penso alle parole

Ogni tanto mi impiglio in pensieri che hanno a che fare con le parole. E non c’entrano né Mogol né Battisti, che pure sono stimabili professionisti, ma hanno piuttosto a che fare con la lingua che parliamo e che usiamo come mezzo di trasporto per i nostri pensieri.

Per esempio vorrei indietro il participio futuro. Non mi convince una lingua che usa il participio presente e il participio passato, ma quando si tratta del futuro usa dei trucchetti.
Nascituro, nascente, nato. Morituro, morente, morto. Non so bene perché, ma mi pare proprio che abbiamo tanto bisogno di triplette complete di participi.
Non sarebbe proprio male poter esprimere in maniera pulita e legittima il tepore che sprigiona qualcosa che si prepara a cominciare. Se dovessi dirne una, a me sembra il modo verbale adatto alla speranza. Lavoraturo sarebbe uno lì lì per trovare un mestiere. Deciduro uno che sta per compiere la sua scelta sofferta dopo varie riflessioni. Partituro un viaggiatore che sta preparando la usa valigia o la primavera nelle gemme già ingrossate negli ultimi giorni di freddo. Trovaturo uno che finalmente, non lo sa ancora, ma sta per smettere di cercare, e non perché ci ha rinunciato ma perché ci è riuscito. È proprio un brutto pasticcio il fatto che noi non lo usiamo più. Più participio futuro per tutti.

E poi c’è il desiderio. Quanto è stato bello scoprire che la parola viene da “de”, che in latino significa mancanza o privazione, insieme a “sidus”, stella. Il desiderio è la mancanza di stelle, sono io che avverto l’assenza di qualcosa di enorme, lontano, pieno di energia e che mi metto a cercarlo appassionatamente. Da quanto l’ho scoperto, per dire, ho smesso di desiderare paia di scarpe (le compro ugualmente, tranquilli) e ho preso a desiderare la giustizia, la pace, l’equilibrio, la bellezza, la libertà. Cose che, quando le penso, posso immaginare avere le sembianze di una stella.

E quella faccenda che mi ha sempre mandato ai matti, che se c’è un unico uomo all’interno di una folla composta da tutte donne, allora quel gruppo di persone deve essere definito “uomini”. Il plurale in italiano è profondamente discriminatorio nei confronti del femminile. Poi ,non so esattamente dove fossi, m’è venuto in mente un altro modo per guardare a questa regola grammaticale poco politically correct. Un uomo in una folla di “uomini ” è  per la lingua italiana un uomo in mezzo a degli uomini. Io in una folla di  “uomini” sono sia un individuo di genere femminile sia un individuo appartenente al genere umano. Grazie alla lingua italiana e a una regola grammaticale, non so dove, ho capito che  il plurale “uomini” dice di me che appartengo al genere umano. Mi sono sentita sollevata.

7 pensieri su “Quando penso alle parole

  1. mi viene da pensare, la butto lì, che un tempo si avesse fede in ciò che sta fuori dal nostro controllo. C’era un’alleanza con il soprannaturale che faceva da ponte, e sosteneva, verso l’imponderabile. Bei pensieri questi sulle parole, buona serata;-)

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