Ieri era la seconda domenica di Maggio e, come ogni anno, si è celebrata la Festa della Mamma. Invecchiando ho di molto dissipato la mia nuvoletta di puzza che ho sotto il naso e mi è piaciuto moltissimo scorrere la timeline di Facebook e leggere tutti i post di chi celebrava la propria madre, il proprio essere madre, la fertilità in senso ampio. Anche quelli di chi rivendicava il diritto a non aver generato niente e nessuno. O di chi caldeggiava o, al contrario, rifiutava l’idea di confezionare lavoretti autocelebrativi coi propri bambini.
Più di tutto mi è piaciuto preparare i muffin con le bambine per festeggiare le loro due nonne, le nostre super mamme, vedere il loro operoso allestimento di un cerchio di sedie distanziate in giardino, di un piccolo striscione fatto unendo due fogli del ciclostile (sì, noi abbiamo residuati degli anni ottanta stabilmente insediati in casa), l’attesa della merenda. Avevo chiesto loro di aiutarmi nelle pulizie settimanali, ma loro hanno usato quel tempo per prepararmi un vasetto con un cactus di pluriball. Mentre sfregavo l’ennesimo pavimento, rimandavo giù il nervoso e mi dicevo che magari era giusto lasciare loro la libertà di trovare il modo di farmi contenta: desideravo che riordinassero la loro stanza e, invece, mi hanno regalato un cactus fintarello, rendendomi felice. Un cactus plasticone che mi si è incastonato nel petto molto più dei fogli ordinati sulla scrivania spruzzata di alcool.
L’emozione più grande, tuttavia, è stata quella di assistere all’abbraccio infinito tra una giovane donna che ha ritrovato la propria mamma (e anche la sorella e il papà) dopo un anno e mezzo di prigionia. Ho condiviso un pezzetto dell’emozione grande di quelle due donne, forse perché so di essere un po’ di entrambe. Sono stata una giovanissima donna in un viaggio di cooperazione da sola in un paese africano, piena di bei sogni, quando, a inizio millennio, ancora non era stata coniata la parola buonismo, brutta nel suono e ancor più nel significato. A quel tempo mi sentivo buona, ma soprattutto sconfinatamente coraggiosa. Sicuramente sbagliavo, ma non me ne fregava niente. Considero quella permanenza di due mesi come uno dei passaggi più importanti della mia vita: lo sforzo di consegnarsi anima e corpo ai propri sogni, inseguire una lontana idea di sè, provare ad uscire da quello che si conosce. E farlo da soli. Non ho avuto paura di essere rapita, forse non ce l’aveva nemmeno quella giovane donna che adesso è libera.
Oggi sono anche un po’ la sua mamma, che, come la mia di allora, è stata la più coraggiosa di tutti, perché ha saputo lasciare andare. E ha saputo aspettare il ritorno. Ha saputo ritrovare la figlia cambiata, forse un’altra persona, ma riconoscerla comunque e comunque volerle bene. Forse è per questo che mi piace tanto questa festa che è stata ieri. Riempie un po’ tutto di senso questo spirito materno che è accogliere senza giudizio, riconoscere l’altro che ti è figlio senza tentennamenti o condizioni o dubbi, spalancare le braccia e poi stringerle a contenere quel figlio, nonostante, forse, l’oggetto di tanto amore sia cambiato, non sia più quello che custodivi nel cuore durante la sua assenza, abbia fatto la sua strada di libertà, e magari anche di dolore.
In questo, non tanto nel generare o nell’essere fertili, ma nell’accogliere, sarebbe bello essere davvero tutti più mamma. Ci farebbe volare un po’ più alto, come persone. Più mamma per tutti, non solo per i nostri, di figli.
[illustrazione di Anna Dellaferrera https://www.instagram.com/anna.dellaferrera/?hl=it https://www.facebook.com/anna.dellaferrera.9)
A noi, qui al paesello, i volontari del comune hanno portato a casa di ogni mamma una vasettino di tagete, incartato con carta rossa e gli auguri del consiglio comunale e della proloco.
Buona serata a tutta la tua bella famiglia.
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