Disclaimer: questo post non ha a che fare col pay-off del blog, insomma sta fuori dal concetto di Laboratorio di leggerezza. Questo post è pesante e parla di sentimenti piuttosto brutti, siete avvertiti.
Quel che racconto qui, adesso, è la nostra quarantena da Covid-19. Mi preme di scriverlo così, per esteso, quarantena da Covid-19, specificando la natura di questo isolamento, perché un giorno finirà e questo sarà uno dei tanti racconti delle nostre vite in questo periodo storico e quando succederà, il Covid-19 avrà perso la tragica ovvietà che ha per noi, ora. Ho smesso da tempo di prefigurarmi quel momento futuro, ma non ho mai spesso di sperarlo, quel futuro.
La classica rilevazione di temperatura al risveglio rivela blandi sintomi generici di Mademoiselle C, che, un lunedì mattina di circa un mese fa, innescano la necessità di qualche giorno a casa senza scuola, io con lei. La mia ultima settimana di lavoro, prima che la mia rinuncia diventi effettiva, al trascorro in telelavoro. Per certi versi, meglio così: non sono brava negli addii. La pediatra, per precauzione, prenota un tampone, ma non immediato, non ci sono posti disponibili. La notizia della positività arriva come una doccia fredda, diversi giorni dopo la fine dei suoi sintomi, dopo tamponi rapidi negativi di noi genitori, per noi il pensiero che potesse davvero materializzarsi in casa la bestia cattiva piuttosto remoto. E invece. Tocca avvertire tutti. Nonni, zii, cugini che sono stati con noi a festeggiare il dodicesimo compleanno di Mademoiselle C e Signorina A, rigorosamente fuori in giardino, le caldarroste e la tisana a scaldare il nostro desiderio di stare insieme con precauzione. I colleghi e gli amici incontrati nei giorni prima. La scuola di tutte e tre. I colleghi di sempre che mi hanno regalato una meravigliosa serata, che è riuscita a sorprendermi come una bambina.
Ho paura. Per tutti quelli che abbiamo incontrato. Per i nonni su tutti. Mademoiselle C per fortuna sta bene, nel frattempo Signorina A ha un po’ di raffreddore. Stiamo tutti a casa, lavoro e scuola a distanza, famiglia in prossimità assoluta. Allestiamo un letto in soggiorno, riserviamo un bagno a Mademoiselle C. Do e ricevo spesso informazioni a tutti i convolti. Per fortuna stanno tutti bene, noi compresi. Una sera non mi sento bene, respiro con affanno. Esco a prendere un po’ d’aria in balcone, così posso togliere per un momento la mascherina che indossiamo tutti e cinque vita natural durante, notte esclusa. Decido di non allarmare nessuno in casa, nemmeno il signor Papici. Se non lo dico, non sta succedendo veramente. Cerco di tranquillizzarmi, mi ripeto che sono vaccinata, le probabilità di contrarre il virus in forma grave sono poche. La statistica mi è compagna anche adesso. Mi preparo per la notte, immaginandomi di soffocare nel sonno e non risvegliarmi più. Dormo tranquilla, al risveglio mi rendo conto che è stato il mio primo attacco di panico, credo leggero, per quel che ne posso sapere non avendone mai fatto esperienza prima d’ora.
La quarantena raddoppia al tampone di uscita, con la positività di Signorina A, che per fortuna sta benone. Tutti i nostri contatti stanno bene. Questa seconda parte di quarantena mi affatica meno e unicamente per una serie di questioni di logistica e di preoccupazione per la scuola. Riceviamo tanta vicinanza da tutti, in vari modi. La paura in me c’è, la riconosco, ma prende vie più ampie, diverse dal Covid. Faccio pensieri foschi e generici sulle persone che mi sono care, mi prefiguro situazioni tragiche che non esistono. Nel frattempo mi perdo nei meandri dell’organizzazione amministrativa dell’emergenza, trovo poche soluzioni stabili, ma tanta umanità. Ogni tanto mi sorprendo a chiedermi che età vorrei avere io, che età vorrei per le mie figlie e i miei genitori perché tutto mi apparisse più semplice. Ma non c’è un’età migliore, siamo tutti coinvolti e danneggiati. Anzi, parlando con Miss T, mettiamo in fila tutti i vantaggi che abbiamo e che non ci meritiamo per nulla. Ne tiriamo fuori tantissimi. Certo, è una rottura di palle, ma stiamo bene, siamo insieme, abbiamo una casa confortevole, tante persone che si occupano dei nostri bisogni per soddisfare i quali siamo a tratti autoinsufficienti.
Alla fine, succede: dopo circa quattro settimane, tutti e cinque potremmo uscire. Cosa sono, in fondo, quattro settimane nell’arco di una vita? Nulla. Con ben tre tamponi, mi sono anche tolta il dubbio che potesse fare male col piercing al naso. E invece no, evviva.
Sono veramente poco certa della mia lucidità in questo momento, perché la paura e la quarantena, e prima ancora due anni di pandemia, potrebbero avere significativamente compromesso la mia capacità di ragionamento, a questo punto. La mia verità di come stanno le cose tra me e la pandemia è che non ho mai avuto una dose così massiccia e prolungata di paura come in questi ultimi due maledetti anni. Tutto il resto, e ci sono stati momenti molto belli, numerosi, frequenti e lunghi, io me lo figuro un po’ come dentro a questo mare scuro, che nuota e mi porta ossigeno e luce perché, come una specie di organismo autotrofo, la vita possa continuare.
Riconosco la mia paura, che è rivolta soprattutto al maledetto virus. Distanziamenti e vaccini si materializzano come degli antidoti alla mia paura. Dei mali minori, di fronte alla grande paura. Penso forse che chi, adulto e in salute, non vuole vaccinarsi, rivolge, invece, la sua paura al vaccino o all’essere vittima di inganno e l’antidoto è non vaccinarsi. Mi dico: almeno il mio antidoto è per lui innocuo, non sono certa del viceversa. Ho rispetto delle decisioni e dei sentimenti altrui. So perfettamente quanto siano inutili queste mie parole, che mi sforzo di pronunciare con giudizio ma senza condanna, nella speranza di tornare a vivere in un mondo dominato dal consumismo, dall’inquinamento e dalle ingiustizie sociali, invece che dalla paura. Ah, no.
Dicevo, nella speranza di ritrovare un mondo dove tutti i bambini e i ragazzi vanno a scuola e se non ci vanno è perché hanno tagliato, dove esistono i pranzi in famiglia e ci si organizza per dividersi le portate, dove si può fantasticare di viaggi brevi o lunghi, organizzare le cene con gli amici, andare ai colloqui con gli insegnanti, fare spazio all’interesse per gli altri senza essere sempre accartocciati su stessi, e l’inverno dura solo un paio di settimane intorno a Natale. Ah, no, quello no. Va beh, io ci ho provato. Intanto, mancano circa 90 giorni all’equinozio di primavera, e pure meno all’inizio della primavera meteorologica. Poi uno dice che non è ottimista.
Ci sono passato l’anno scorso con mia figlia. Fortunatamente è andata bene, ma come ti capisco!
"Mi piace"Piace a 1 persona