Ad agosto del 2020 – in corrispondenza di quello che poi si è rivelato essere solo il primo dei minimi della curva pandemica che poi ha ripreso a infliggere ferite profonde alle nostre vite nella realtà oggettiva e dentro ai nostri strati profondi- ho manifestato la mia decisione di lasciare il lavoro che svolgevo da oltre quindici anni e che mi avrebbe di lì a poco dato un contratto a tempo indeterminato dopo una carriera di precariato. Sono stata prima borsista universitaria, poi dottoranda, poi lungamente assegnista di ricerca, poi ricercatrice a tempo determinato ed è lì che ho deciso che non sarei diventata professoressa associata. Ho rinunciato a quello che era il mio lavoro per il semplice fatto che avevo smesso da tempo di considerarlo una parte importante di me e lo avevo relegato in una zona poco vitale del mio cuore.
Ho realizzato grazie ad un libro appena uscito di aver avuto in Joseph Ratzinger un precedente illustre: qualunque fossero le sue ragioni, si è dimesso da un ruolo unico al mondo che si supponeva avrebbe ricoperto vita natural durante. Mi piace pensare che anche lui, sotto la doccia, si sia detto ad alta voce: “Ma dove sta scritto che io debba continuare così?”.
Comunque sia, ho anche scoperto che al mondo siamo una moltitudine e che questa cosa è stata così comune in questi ultimi anni da meritare addirittura un nome. Pare che un economista americano l’abbia chiamata Great Resignation. La cosa che mi rincuora, però, non è tanto il mezzo gaudio, ma il fatto di sentirmi pienamente Millenial, anche se lo sono per quattro giorni esatti, almeno credo. Astenersi chi voglia convincermi del contrario. Ultimamente ho particolare necessità di sentirmi giovane per fronteggiare la mia attuale vita da matricola di Scienze della Formazione Primaria. Insomma, nel mio futuro, ho deciso che sarò maestra e mi sto preparando a farlo. Sto per terminare la mia prima sessione d’esame e alterno lampi di ebrezza quando vedo che sto procedendo a lampi di disperazione quando valuto il percorso che ancora ho davanti a me. Ma, come teorizzavo un tempo, cerco di guardarmi i piedi mentre cammino così da resistere ai tratti di disperazione. Mi sforzo di scrivere e annotarmi come mi sto sentendo.
Sono molto contenta e al contempo spaventata e al contempo disorientata e al contempo entusiasta. Cambiare vita è una scelta meravigliosa, ma tra i prezzi da pagare (e ce ne sono) c’è anche quello di doversi ricostruire quella parte di identità che mi dava il lavoro. L’immagine della nuotata in mezzo al mare mi pare ancora buona: la riva che ho lasciato non è per me più avvicinabile e onestamente nemmeno lo vorrei, ma il nuovo approdo è ancora lontano. Sono in viaggio e mi sforzo di godermi il panorama (bello è bello, per dire) mentre fatico nel remare e ho paura della burrasca. Ma la barchetta l’ho messa io in mezzo al mare, e quindi vado.
Procedendo, mi do delle pacche sulla spalla, perché sto ingaggiando una mia personale campagna di crescita personale a cui ho dato il nome “uccidi la secchiona che è in te”. La faccenda non ha tanto a che fare coi voti ottenuti, ma con la capacità di fronteggiare le prove di esame ammettendo di non avere una preparazione eccellente e di provare a cavarmela valorizzando le competenze che sono riuscita ad acquisire. Mi sto forzando a procedere (se ho tempo di studiare, certo) ammettendo di non avere sotto controllo tutto e un po’, a piccoli passi, ci sto riuscendo. Purtroppo, sono ancora tragicamente competitiva nei confronti di me stessa e dei miei risultati passati, vedremo come riuscire a migliorare anche in questo senso.
Le nuove materie di studio mi hanno stanata dalla mia confort zone, in modi che nemmeno mi aspettavo. Lavori di gruppo, conoscenze transgenerazionali, interventi in riunioni plenarie su temi per lo più non noti, ma anche la messa in discussione di competenze che credevo di avere e invece no, avevano bisogno di una sistemata. Dicevo del sentirsi giovane: a tratti mi ci sento tantissimo. In altri momenti penso che avrei potuto farlo prima, sarebbe bello avere una intera vita professionale davanti a sé. Poi mi ridesto: i) per fortuna (!) andrò in pensione tra 25-30 anni quindi sto ancora a meno di metà del mio percorso di lavoratrice; ii) sono qui, io, oggi: le sliding door non mi hanno mai davvero convinta.
Le mie compagne di corso si dividono tra giovanissime neo-diplomate che mi potrebbero quasi essere figlie, ma non troppo e donne della mia generazione alle prese con una vocazione repressa o tardiva. Si sta bene, stranamente non mi sento fuori posto. L’ingenuità delle ragazze mi fa tanto tenerezza, la caparbietà delle donne studentesse (e magari al contempo lavoratrici e pure madri) mi mette un misto di ammirazione e orgoglio.
So ancora chi sono anche se non posso rispondere nulla in questo momento alla domanda “che lavoro fai”? Sì, sono forse più io adesso che un paio di anni fa.
(immagine del bravissimo https://www.instagram.com/jesuso_ortiz/)