Oggi ho incontrato per caso un carissimo compagno di tante lezioni di scrittura creativa. Quando ci vediamo, tra noi ex corsisti, in genere, prima o dopo, nella conversazione almeno uno dei due infila uno:”Scrivi, eh“. In genere, chi riceve la fraterna raccomandazione apre le braccia e dice: “Eh, magari! Non riesco mai a trovare il tempo”. E, invece, a sorpresa, oggi il mio carissimo compagno A ha aperto uno di quei suoi sorrisi e mi ha detto: “Ho finito il romanzo”. A ha finito il romanzo che aveva cominciato a scrivere nelle nostre lezioni pre-covid e di cui io so il piccolo cuore che iniziava a palpitare un paio di anni fa. Ora quel cuore ha un corpo, un giorno non lontano so che lo leggerò e sentirò quel cuore.
Le cose che mi capitano, in genere le cucio insieme, magari non subito, ma dopo un po’ trovo quel modo in cui mi piace raccontarmi le vicende una in fila all’altra. E quindi l’incontro di oggi lo metto vicino per prima cosa al fatto che quest’anno, come non mai, sto detestando l’inverno. Il buio della sera si adagia troppo presto sulla città e si inghiotte tutte le me che non sono stata o che sono stata e non sono più, tutti i bivi, tutti i non sarò. Allora, mi succede che faccio tre giri inutili in auto per risentire una canzone che trasuda malinconia. Si dice che invecchiando si diventi più suscettibili al tempo meteorologico, ma a me, l’ inverno non fa scricchiolare le ossa: crescendo mi screpola il miocardio (perché cuore suona troppo sentimentale per me, ma non sono i tessuti il nocciolo della questione). Ecco, nella mia testa, questa metafora delle stagioni che penetrano dentro ai cuori che invecchiano, da quanto ce l’ho in testa (e sono mesi e mesi), l’avrebbe dovuta pronunciare l’algida madre della protagonista del mio, di romanzo. Che non è andato avanti di nemmeno una riga da quando ho perso la registrazione dell’ultima lezione con la mia adorata maestra di scrittura. Non ho avuto più il coraggio di aprirlo. E sono mesi, credo più di un anno, che non lo scrivo di più, mesi in cui sono cambiata tantissimo, in maniere del tutto inattese. Ho paura di riaprirlo, perché non sono più io quella persona che aveva deciso dove sarebbe arrivata la vicenda. Ho paura, sì.
E qui cucio ancora un pezzettino. L’autunno, prima che arrivasse l’inverno, mi ha portato tante cose nuove: le prime esperienze vere in classe da maestra, per esempio. E con loro, sentimenti ed emozioni che non avevo mai provato prima. Nuove conoscenze, nuovi colleghi con i quali misurarmi. Mi ha portato anche un laboratorio all’università, a cui, sulla carta, non avevo fatto la minima attenzione e che, invece, mi ha acceso delle forze che non sapevo di avere. Tanti pensieri li devo ancora riordinare, mi vagano internamente con traiettorie misteriose; ma per ora mi basta sapere di aver scoperto un geyser nascosto, anche se devo capire come gestire questa manifestazione di un vulcanismo a me sconosciuto. Dentro a questo laboratorio, una volta, chi lo gestiva (e che lo ha fatto con una cura così profonda, se non esagero coi complimenti è per rispetto del pudore discreto di chi lavora bene e non lo vuol dare a vedere) ha detto (en passant, forse nemmeno per lui era così importante) che aveva fatto esprimere a noi discenti adulti uno stato d’animo utilizzando un pastello a cera, ma che coi bambini sarebbe stato decisamente più efficace farlo con le tempere. Sono settimane che mi gira in testa questa immagine e, a forza di rifletterci su, mi sono convinta che anche la mia interiorità è materica e fluida, come le tempere. Non riconosco tratti netti, non ci sono colori primari, immagino una gran mescola di colori scorrermi all’altezza dello stomaco. A tratti spero che non sia sgradevole l’effetto che deriva da questo magma cromatico con cui, oggi, mi dipingerei. Ma più che i colori, allora, uso le parole. Sono loro, in genere, a salvarmi.
Mi capita di incontrare persone che mi dicono che leggono quello che scrivo, che mi dicono di ritrovarsi nelle mie parole, che mi fanno dei complimenti guardandomi negli occhi. Io gli credo, so che è tanto più difficile dirsi le cose belle di persona e non tramite uno schermo, credo che ci abbiano trovato qualcosa di apprezzabile, ma al contempo mi dico: io non sono così, io sono peggio di come mi racconto. Io setaccio le cose e le cucio insieme come me le voglio raccontare, come io voglio che gli altri mi leggano. Ma sono peggio. A tratti faccio pensieri orribili, poi li ingoio. E sorrido, chiedendomi se anche gli altri facciano così.
Desidero più che mai di essere coerente e più che mai non ci riesco. Come in Momo, più veloce vado, più forte desidero, meno ci riesco. Amo le piccole cose, ma ne desidero profondamente di grandi; voglio lasciare libere di crescere lontano dalla mia ombra le mie tre figlie, ma vorrei che mi sentissero sempre vicinissima. Cullo un desiderio che so non si avvererà mai, perché io stessa non farò niente per farlo avverare. Lavoro perché i bambini che incontro possano riuscire ad esprimere i loro pensieri, mi addoloro moltissimo quando mi convinco di non essere in questo stata così capace con le mie figlie, ma poi sono io la prima a tenere molti pensieri per me, dentro a delle stanze senza finestra per guardarci attraverso né porte per entrare.
In genere, quando cucio insieme gli eventi, trovo un capo e alla fine confeziono anche un piccolo orlo. Stavolta no, la tela è aperta, le cime pendono, è ancora tempo di intrecciare.
Buona fine d’anno.
"Mi piace"Piace a 1 persona