Una donna ritrova un album risalente al periodo all’estero della sua (prima) università, quella che ha fatto dopo il liceo. Anzi, no, la donna lo va proprio a cercare di proposito, quell’album, a casa dei suoi genitori, nella sua cameretta.
La donna, quando era ventenne, non ha fatto l’Erasmus come la maggior parte dei suoi coetanei che hanno scelto di trascorrere un periodo di vita in un altro paese, ma ha scelto di provare a vincere una borsa di studio per partecipare ad un progetto di cooperazione internazionale.
La donna non ne parla quasi mai, ma quando ci pensa, a quel periodo di vita, trova la ventenne di allora davvero coraggiosa. Nelle poche foto in cui compare [le altre sono quasi tutte di paesaggi e persone], come quella su una piroga che incamerava acqua, accanto a due amici francesi e alla sua sodale del periodo burkinabé, le appare come un mucchietto di ossa poco più che bambine mosse da una volontà decisamente più grande delle sue apparenze corporee. La volontà di “salvare il mondo“.
Da bambina, quella donna pensava di “salvare il mondo” dalla piaga che le sembrava la peggiore di tutte: la povertà. Si immaginava medico in un paese del terzo mondo.
Crescendo ha poi capito – ed è, quando ci pensa, una delle poche idee che nella vita non ha mai cambiato- che non sarebbe mai riuscita ad essere né un buon medico né una buona infermiera.
A 18 anni ha rinunciato alle sue due principali opzioni universitarie (filosofia e matematica) per iscriversi a Scienze e Tecnologie Agrarie, laurea quinquennale che immaginava l’avrebbe portata a lavorare per sconfiggere quella che in quel momento le sembrava ancora la peggiore delle piaghe globali: la povertà. Era un po’ più grande, allora, e aveva affinato il concetto nella sua testa: si sarebbe occupata delle disuguaglianze, dedicandosi alle grandi produzioni agroalimentari. Nel corso di quegli anni si è immaginata funzionaria della FAO, prima (senza avere la minima idea di cosa si trattasse realmente) e cooperante internazionale per qualche ong, poi. Per capire se era davvero questa la strada, ad un certo punto ha deciso di provarci.
È partita da sola, senza cellulare (esistevano, sì, ma lei non ce l’aveva) prima per Parigi e poi per Ouagadougou. Forse un giorno si metterà lì e pubblicherà qualche stralcio del diario cartaceo che teneva allora. O forse no.
È tornata dopo due mesi trascorsi a Dano, un villaggio ai confini col Ghana e ha smesso di immaginarsi in un paese povero del mondo. Le ragioni, forse, le spiegherà un’altra volta. O forse no.
Dedicandosi alla tesi di laurea e poi, a poco a poco, durante il successivo dottorato, ha capito che sì, avrebbe salvato il mondo, ma da quella che a quel punto le sembrava la peggiore piaga, di cui era necessario occuparsi: i cambiamenti climatici. L’ha fatto a lungo, l’ha fatto con passione, ma sempre sentendosi ipocrita. La faccenda di muoversi in auto per raggiungere il posto di lavoro dove studiava come minimizzare l’impatto avverso dell’agricoltura sul clima non se l’è mai davvero perdonato, quella donna.
A un certo punto, ha semplicemente smesso di immaginarsi così.
Da qualche parte nella sua testa, in un qualche circuito biochimico, dentro ad un muscolo o a più di uno, è cambiato inesorabilmente qualcosa.
E quella donna ha ridimensionato il suo grandissimo concetto di compito esistenziale; sa che è vitale, nella vita di ogni giorno, occuparsi di cause giuste e alte, ma al contempo ha cominciato a pensarsi diversamente, a pensarsi come una che salva sé stessa da tutto quello che sé stessa non è. E ha anche una bicicletta rimessa a nuovo e una manciata di buoni propositi per riuscirci.
Oggi quella donna insegna e si prepara a farlo sperabilmente meglio. Sa che potenzialmente è un mestiere che può salvare forse non il mondo intero, ma tanti singoli mondi sì. Ma sa anche quel che diceva Don Milani (l’uomo da cui, senza capirlo, è partita quella bambina e a cui ora per certi versi a quella donna pare di ritornare): “non bisognerebbe preoccuparsi di come fare scuola, ma di come bisogna essere per poter fare scuola”.