risvegliati (mia) umanità

Dopo il naufragio in Calabria non ci sono parole per commentare l’ennesima tragedia evitabile“, inizia così questo articolo, che stamattina è stato uno degli antidoti che ho cercato e, per fortuna mia trovato, alla violenta tristezza che mi ha colpito come un pugno negli occhi ieri, alla notizia del naufragio di Cutro.

Mi affido alle parole di Lorenzo, che ha scritto questo articolo, perché io di fronte a questa ennesima strage sono primariamente colpevole e poi subito di seguito o, anche insieme, una maledetta ipocrita buonista di merda. Faccio fatica a parlarne, fortuna che Lorenzo ne sa e ne scrive bene, spinto da quella sua energia anti-sistema che ricordo bene. Lui è stato un mio studente alcuni anni fa e non posso dimenticare i seminari organizzati dal collettivo di cui faceva parte in cui mi invitò a parlare di impatto ambientale del cibo, ma più di tutto ricordo la discussione costruttiva che nacque in classe quando lui disse di essere vegano. Dopo aver letto l’articolo, che, se non si è capito, consiglio in tutte le sue parti, fonti citate incluse, gli ho scritto, dicendogli che tendo sempre a sopravvalutarmi, a credermi più vigile di quello che sono e poi, invariabilmente, finisco in un torpore autocentrato (su di me, sulla mia vita, sul mio piccolo cerchio), che mi addormenta l’umanità. Lui mi risponde che è normale, è quello che il sistema vuole da me.

Cazzo, no. Non va bene così. Non va bene per niente.

Tenermi sveglia su quello che accade al mondo, sulle mie connivenze pigre con le ingiustizie internazionali e con quelle nostrane, ecco quello che devo fare.

Informarmi: antidoto numero uno.

E poi: fare.

Un secondo piccolo antidoto, per me, è riattivare il mio laboratorio di creazione di cappelli, sciarpe, scaldacollo e fasce, che confezione su ordinazione in cambio di un sostegno alle attività di Nawal Soufi. E se non la si vuole sostenere, almeno leggere le sue testimonianze è dovere.

Farina ci vuole, e non solo bontà” dice una canzone e prima ancora una poesia, che, la prima volta che l’ho sentita mi ha trascinato in una voragine buia di tristezza. Non l’ho più voluta ascoltare per qualche giorno.

Mi sembrava insopportabilmente triste.

Poi, il naufragio di Cutro. E, mentre preparavo i muffin per la merenda, ieri, e fuori dalla finestra cadeva quella stessa neve di cui parla la canzone, che, però, per me era festa e non morte, ad un certo punto mi è stato insopportabile il contrasto tra la mia cucina, calda, dolce di gocce di cioccolato e scorze di limone, e la consapevolezza dei cadaveri sulla spiaggia. Così ho risentito la canzone, una volta, due, tre. Qualche lacrima è caduta nell’impasto dei muffin, poi è evaporata nel forno.

Ho realizzato che la tristezza violenta della canzone era giusta, il minimo prezzo che da pagare di fronte ai cadaveri sulla spiaggia, alla Geo Barents ferma nel porto di Ancona per effetto di una legge dello stato di cui sono cittadina, al macabro anniversario della guerra in Ucraina, alla tiepida e inopportuna indifferenza in cui mi invischio, a tratti.

Terzo antidoto: scriverne.

Quarto antidoto: fare di più.

Illustrazione: Laurence Blanchard, Migrants – somewhere on the planet eart, 2020. Oil on canvas, 46 x 61 cm.

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