In questi giorni ho fatto alcune cose che non facevo da tempo.
Camminare da sola, in montagna, ad esempio.
E anche starmene per tutto quel tempo in silenzio.
Difficile che io sia sola per più di un’ora di fila, non succede quasi mai. Spesso non sono da sola manco in bagno, per dire. Mi manca, un po’, ogni tanto. Ho sempre cercato e difeso spazi di indipendenza, ma mai di solitudine.
E allo stesso modo accade raramente che io stia in silenzio. O ascolto, o parlo. Penso sempre, giorno e notte. Molto spesso scrivo. Silenzio, davvero poco.
Quanto allo scrivere, ultimamente ho scritto sia cose che mi hanno sorpreso, in seguito, per la loro minuscola ma accesa poesia e, allo stesso modo, ho scritto altre che mi hanno, in seguito, sorpreso per la loro superficiale sgradevolezza.
Mancatami all’ultimo la potenziale compagna di passeggiata e chiacchiere, cammino da sola su un sentiero battuto da generosi ciaspolatori prima di me, mentre io, ad affrontare incombenze e malumori della famiglia, ho dimenticato le mie in cantina.
Dopo un po’ mi fermo su un pianoro innevato, sono completamente sola, di uomini e di suoni.
Il cielo è libero dal velo nero delle polveri sottili di Torino, che si vede, spaventoso, laggiù ad aspettarmi a valle. Ma qui l’azzurro è quasi commovente.
A, C e T stanno sciando con S. Io che sono una modesta fondista, quando la gita è di discesa mi defilo: so che in questi casi sono brava a trasmettere alle mie figlie solo le mie ansie piuttosto insensate. All’improvviso, qui, sotto questa grande pietra dove mi sono seduta, metto a fuoco una faccenda sulla quale ultimamente oppongo una intima (e talvolta fastidiosa) resistenza: se devi fare una cosa male, meglio non farla. Come faccio da sempre con le mie figlie, così farò coi miei allievi.
Era così ovvio.
Nella mia catena di pensieri solitari, indomito tapis roulant che è attivo nella mia testa anche quando mi illudo di riposare, penso all’ovvietà e arrivano ora quei passi che per tutto un periodo non facevo e invece erano e sono ovvi. La bici, il regime alimentare a cui mi sono da anni avvicinata a passi regolari senza avere il coraggio di applicarci un’etichetta. D’altra parte le etichette non le amo per nulla.
Sono qui, sotto a questa grande pietra fuggita alla montagna ma come lei immobile, e ripenso ad una poesia, che ho letto da poco: La cipolla, di Wislawa Szymborska.
La cipolla è un’altra cosa.
Interiora non ne ha.
Completamente cipolla
fino alla cipollità.
Cipolluta di fuori,
cipollosa fino al cuore,
potrebbe guardarsi dentro
senza provare timore.
In noi ignoto e selve
di pelle appena coperti,
interni d’inferno,
violenta anatomia,
ma nella cipolla – cipolla,
non visceri ritorti.
Lei più e più volte nuda,
fin nel fondo e così via.
Coerente è la cipolla,
riuscita è la cipolla.
Nell’una ecco sta l’altra,
nella maggiore la minore,
nella seguente la successiva,
cioè la terza e la quarta.
Una centripeta fuga.
Un’eco in coro composta.
La cipolla, d’accordo:
il più ventre del mondo.
A propria lode di aureole
da sé si avvolge in tondo.
In noi – grasso, nervi, vene,
muchi e secrezione.
E a noi resta negata
l’idiozia della perfezione.
La metto insieme ad una domanda che ho fatto a chi ho incontrato negli ultimi giorni, per completare un racconto. Ho bisogno di punti di vista diversi dal mio per capire di cosa ciascuno di noi sente di essere fatto.
Com’è fatta la cipolla?
La cipolla è luminosamente cipolla, sé stessa alla luce del sole.
Io no.
Forse è per questo che chiedo aiuto agli altri per rispondere a questa domanda. Perché io non so di cosa sono fatta. So che, dopo tanto tempo in cui le ho compresse dentro di me, ho delle forze telluriche che mi scorrono dentro. Ho aperto una fessura nella mia crosta, nell’agosto 2020, da lì vedo dei bagliori al contempo luminosi e scuri, in cui io, forse, sono capace di vedere una me nuova e al contempo antica come nessun’altra me prima, ma che tengo lì ancora un po’ sotterranei, perché gli altri continuino a rivedere in me qualcuno di rassicurantemente riconoscibile.
E allora invidio la cipolla, fedele e uguale a sé stessa fin nel profondo.
Ma la sento anche un po’ sorella, la cipolla: per spogliarsi e svelarsi a sé stessi e agli altri, qualche lacrima è necessaria.