La vena

Ti hanno chiamata per la seconda operazione per rimuovere una vena della gamba, che tutto sommato è uno dei pochi esiti nefasti permanenti di quello che consideri uno dei miracoli biologici del tuo corpo: avere generato tre esseri umani. Sei contenta: finalmente pensi che non vedrai più quella brutta vena malfunzionante che ti guarda da sotto la cute della tua gamba sinistra, che è una delle parti del tuo corpo che hai sempre odiato di più e ora più che mai ti parla, ti giudica e ti giudica brutta. Non è solo lei a farlo, ma va bene: almeno lei non lo farà più.

Decidi che andrai da sola, e così fai. Non ha senso che qualcuno devii la sua organizzazione per aspettarti tre ore fuori da una porta da cui sai già che uscirai semovente, magari lenta, ma perfettamente autonoma. Porti con te il romanzo che di lì a qualche ora avrai finito di leggere, sulla metro del ritorno. Sulla metro dell’andata, invece, trovi un paio di frasi illuminanti. Una la fotografi e la mandi, l’altra, ancora non lo sai, tornerà a farti compagnia nelle ore che verranno.

Arrivi in anticipo, ti siedi dove ti dice la signora dell’accettazione, bella e provocante dentro ad paio di jeans strettissimi in bilico su dei tacchi a spillo che tu non hai mai messo né mai penseresti di indossare in nessun giorno della tua vita. Continui a leggere il tuo libro e una breve intervista ad una scrittrice che non avevi mai sentito prima d’ora, e che è così superficiale da farti apprezzare tanta onestà intellettuale. Ad un certo punto la donna provocante, con un perfetto long bob nero dice di salire al piano delle sale operatorie. Vi alzate in tre. Una è una signora che potrebbe essere tua madre: per quanti anni ha, certo, per come è vestita, ma soprattutto per quell’aria spaesata di fronte ad un fatto di salute. La aspetti, sali dopo di lei, ti viene naturale scortarla, vuoi che si senta tranquilla. Davanti, guida la fila una donna bionda, di mezza età. Ti chiedi cosa sia la mezza età, forse ci sei vicina e non lo sai, alle prese con la tua infinita adolescenza.

Un’infermiera con la voce calda vi impartisce poche istruzioni: vi chiama una a una. Scopri che la sosia di tua madre si chiama Francesca, la signora di mezza età Giulia, mentre, non sai perché, con te l’infermiera usa il cognome. Ti chiama: Bertora, venga mi dia la calza. Almeno dica “La Bertora” vorresti correggerla, ma stai zitta e sorridi senza scoprire i denti. L’infermiera usa una serie di cortesie linguistiche che tu odi. Dice a tutte invariabilmente “cara”, forse immaginando di trasmettere vicinanza, ma proiettando te ad una distanza siderale, in un posto dove fa piuttosto freddo.

Vi dice di cambiarvi. Al posto dei vestiti con cui sei arrivata, ti ritrovi con indosso un paio di mutande di rete che ti ricordano i tuoi parti e un camice legato con tre fiocchi dietro come nei cartoni animati. La signora di mezza età lamenta timidamente un certo imbarazzo per quella uniforme. Tu da quando hai lasciato gli occhiali nell’armadietto numero sette sei passata in un’altra dimensione, a cavallo tra la realtà e il sogno. Ti viene in mente cosa hai sognato la notte prima: viveva a casa tua un gigantesco serpente velenoso ma gentile. Ti parlava, ti confidava il suo sentirsi prigioniero a casa tua, ma comunque grato che gli permettessi di girare per le stanze senza tenerlo in una teca. Tu ne eri attratta, ma al tempo stesso lo temevi e non lo perdevi mai di vista. Hai depositato tutto, come da istruzioni, nell’armadietto. Niente orecchini, niente anelli, né collanine o smalto su mani e piedi. Lo smalto non l’hai tolto, semplicemente perché non l’hai messo, non lo metti quasi mai. Hai tenuto il piercing al naso, tanto sta sotto la mascherina. Hai dimenticato la mascherina, questa mattina, fortuna che la donna attraente all’accettazione te ne ha data una, molto scomoda, che ti toglie il fiato.

Trascorreranno altre due ore prima che tu entri in sala operatoria. Le trascorri in parte su una scomoda sedia, senza occhiali, senza niente da leggere, sola con i tuoi pensieri. Ma non riesci a pensare bene. Speri ti venga a trovare una storia e invece niente, solo uno scricchiolio come di gusci che si rompono. Allora ti giri verso le altre due signore, ti ricordi che, sebbene per te sia una lontana figura sfocata, la signora Francesca potrebbe essere tua madre e la signora Giulia sta lottando contro l’imbarazzo di sapersi nuda. Come se non lo fossimo sempre. Abbozzi un tentativo di conversazione, anche se non sai dove guardare, non sai chi e se stai guardando qualcuno negli occhi. -7 e -5 diottrie, rispettivamente dall’occhio sinistro e da quello destro. Non avete altro in comune che la chirurgia vascolare, che tu ne sappia, quindi ti concentri su quello. Le due signore rispondono alle tue domande rapidamente, chiedono con cortesia quale operazione aspetti te e poi tacciono. Silenzio. Nessun buon pensiero da inseguire. L’infermiera accende la radio su una trasmissione così superficiale da farti disprezzare quello spreco di tempo.

Dopo un tempo che si avvicina all’infinito o forse al vuoto, ti chiamano per andare in sala operatoria. Lasci le ciabatte da un lato, infili una cuffietta in testa e, dopo che si è aperta una saracinesca in acciaio, ti sdrai su una barella tutta verde chirurgia, dove una infermiera che, scoprirai a breve, usa molti diminutivi, ti copre con un telo verde chirurgia. Ti guardi da fuori. Di te si vedono solo occhi, fronte, sopracciglia. Improvvisamente vorresti essere bellissima. Vorresti avere coperto le occhiaie con il correttore, allungato le ciglia col mascara, sistemato la regolarità delle sopracciglia. Provi il desiderio fortissimo, quando il chirurgo ti scoprirà, di avere uno smalto perfetto sulle unghie. Mentre al tuo vicino di barella un anestesista che quando cammina trascina gli zoccoli somministra una anestesia spinale, tu senti da lontano delle voci che cantano “tanti auguri Marilena” e desideri di nuovo di avere il mascara e le unghie perfette.

Mentre qualche macchinario del blocco operatorio non smette il suo ronzio, l’infermiera ti chiede il braccino per mettere la canula e poi ti chiede quale delle due gambette sarà operata. Ti senti un corpo, sei solo un corpo. Siete una serie di corpi coperti da un telo verde chirurgia. Ti torna in mente la frase del libro che hai letto in metro. Diceva: “Sii semplicemente te stessa” rispose, come se io avessi la benché minima idea di chi fossi. TI chiedi chi sei, in quel luogo dove le persone festeggiano compleanni e tu sei considerato un corpo a cui, tra breve, un uomo robusto che chiamano tutti con deferenza “dottore” ti toglierà per sempre una vena che odi.

Tocca a te, entri in sala operatoria. Decidi che visto che non puoi essere bella, almeno sarai simpatica. Fai diverse battute mentre il dottore ti infila 10-12 forse 15 poco piacevoli iniezioni di anestetico lungo tutta la gamba. Dici ma sì, certo, quando ti chiede se la vuoi vedere la tua vena, Gli parli di quanto quella vena ti giudichi. Lui ride, forse non sono bella, ma vedi sono simpatica, pensi. Sono un corpo simpatico. Mentre lui estrae con grandissima fatica quella tua parte dal tuo corpo, gli fai notare che forse “sfilare” non è la parola più giusta per definire quell’azione così faticosa per lui e per te. Ti chiede una nuova parola. Gli dici che lui ti ricorda uno di quelli che cercavano di estrarre la spada dalla roccia con tutte le loro forze e non ci riuscivano. Lui ti dice che i tuoi tessuti sono molto tonici, che dovresti esserne contenta. Allora stai zitta, lasci che il male che ti fa faccia il paio con la parola “tonica” e aspetti che finisca in un limbo tra il dolore e la felicità.

Dopo un tempo che giudichi essere di circa venti minuti, ma non ne hai realmente contezza, ti riportano alla saracinesca di acciaio, ti siedi, passi nel mondo di quelli che non sono solo corpi. Reinfili le ciabatte, ti trascini con tutta la fretta di cui sei capace in quel momento ad aprire l’armadietto sette e indossi nuovamente i tuoi occhiali. Ti sembra di essere di nuovo tu, compatibilmente con l’idea minima che hai di te stessa, ultimamente. Il mondo è di nuovo confuso come stamattina. Ti senti di nuovo un puzzle senza soluzioni visibili, come negli ultimi mesi.

A casa ti ricorderai di rimettere gli orecchini: uno, due, tre, quattro. Li sceglierai più o meno a caso, vuoi solo che non si richiudano i buchi. Mentre lo farai, senza badare all’estetica ma solo alla meccanica del gesto e degli oggetti che stai indossando, improvvisamente ti chiederai quante cose della vita stai guardando allo stesso modo, scambiando le cause con gli effetti.

Appari normale coi tuoi jeans larghi, solo tu sai di avere una gamba impacchettata come un olivo protetto durante gli inverni del nord Italia. Sei un corpo che cammina. La vena smetterà di giudicarti, ci sarai solo tu, adesso, a farlo.

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