Pensieri disordinati e forse meno inutili di quello che potessi pensare qui:
– quello che davvero conta per te è la relazione coi bambini e il poterla coltivare a lungo è un’opportunità che quest’anno hai vissuto durante il tirocinio e quasi per nulla nel lavoro di supplente; ma questo è davvero la cosa che ti interessa sul serio di più
– da cosa lo capisci? Da come hai scritto tutto il diario di tirocinio, lunghissimo, nel quale hai annotato moltissime conversazioni tra i bambini e con i bambini, molti gesti di contatto, per lo più positivo, qualcuno davvero duro da digerire
– da cos’altro ti è chiaro? Dal fatto che hai in mente il nome di circa 200 bambini che hai incontrato nelle 9 classi in cui sei stata finora e che non te ne dimentichi uno e quando ti succede ti dispiace tantissimo; che quando ti salutano per la strada, si illuminano come succede a tutti i bambini che vedono un pezzo di scuola a spasso in un altro contesto e ti dicono “Ciao Chiara”, invece che “Ciao maestra” (okay, devi lavorare sull’autorevolezza di ruolo, ma a cosa serve rifletterci su se non a questo? E a cosa serve scriverne se non a rifletterci su?)
– quando finisce una supplenza e aspetti la chiamata per quella successiva sai (grazie ad una illuminazione di cui sei grata) che, comunque vada, lavorerai con delle persone interessanti (fuori da ogni retorica, i bambini sono tutt’altro che facili, ma cazzo se sono interessanti)
– fare tante supplenze in classi diverse è incredibilmente difficile per te
– come qualsiasi lavoro, situazione, fatto della vita: non è tutto oro quello che luccica e le illusioni finiscono per infrangersi; meglio così: sotto rimane il nucleo che vale
– cresci, come in tutto, cresci; e crescendo, per certi versi peggiori, per altri migliori
– in classe riesci a fare una cosa che non ti riesce mai nella vita: trasformare una incazzatura in un momento leggero (“Ah, ma lo sapete che quando fate così mi trasformo in un mostro mezzo arancione e mezzo viola-vinaccia con la bava alla bocca e la lingua di fuoco?”); tanto più ti riesce in classe, tanto meno ti riesce di farlo nel resto della vita, in cui ti confermi una irrefrenabile cagacazzo
– secondo un modello matematico simile, meno parolacce dici in classe (e non ne dici) più parolacce dici fuori
– i bambini ti mostrano spesso una forma di benevolenza senza motivo e questa cosa ti manda ai matti; vorresti dire loro cose del tipo: “Ma perché mi abbracci? Mi fai disegni? Mi vieni a raccontare queste cose? Io sono una stronza, non lo vedi?” (qui si ritorna al punto in cui si prende coscienza del fatto che tocca lavorare su questa cosa, ma rifletterci è comunque il primo passo)
– scrivi, scrivi, scrivi tutto quello che fai, e annoti mentalmente quel che capisci quando, spesso, cerchi di guardarti da fuori; per essere migliore, che è l’unica cosa che ti interessa (okay, dopo essere figa, certo, quello sempre)
– vale sempre quella roba che più pensi all’educazione, più capisci cosa hai sbagliato con le tue figlie, ma tenti di perdonarti e procedere per come puoi, invidiando, quando li incontri, quegli amici con figli piccoli che ancora si illudono che faranno bene
– via via, molte cose (chiamiamole sogni, chiamiamole visioni), piano piano, ti sembrano sempre più possibili.