Le cose cambiano e possono cambiare anche molto, anche in modi che magari possono rimanere impercettibili allo sguardo altrui. Anche noi adulti siamo forse soggetti a quelli che nei lattanti chiamiamo scatti di crescita e io mi sa che ne sto attraversando uno.
Un mesetto fa ho avuto la conversazione forse definitiva con il mio conversatore delle mille leghe sotto i mari prima che lui partisse per il suo viaggio più intenso e, voglio credere, proficuo nella comprensione di sé e di tutto ciò che esiste. Forse non è un caso che sia stato lui a permettermi di ascoltare per la prima volta nella vita un sincero “sto morendo” con tutta la mia attenzione tesa a carpire quel suo filo di voce. Non gli ho creduto, gli ho detto che non poteva saperlo, che il futuro non è scritto. Nonostante le cose fossero oltremodo evidenti, non gli ho creduto sul serio. E così gli ho detto che avrei preso la sua pasta madre dal frigo, che gliel’avrei curata fino al suo ritorno. Che avrebbe dovuto rimettersi in sesto perché non mi sarei persa per nulla al mondo il suo racconto di cinque giorni in coma profondo, che per distrarsi dai pensieri di morte, ecco forse poteva richiamare alla mente tutte le poesie e compagnia bella che nella vita aveva imparato a memoria per momenti come quello. E che sarei tornata presto a trovarlo. Lui mi ha detto: “Sarò morto”. Aveva ragione e io, sul serio, non ci credevo. Ha aggiunto un imperativo, con una ragnatela sottilissima di voce. Gli ho chiesto di ripeterlo un paio di volte e ogni volta il filo si faceva sempre più sottile. Fatto sta che non l’ho mica capito quel suo imperativo, l’ultimo, per me. Ho capito che finiva per “ti” e poteva essere “lavati”, o “svegliati” o “curati o “sparati” o “conosciti”, chi lo sa. Alla fine mi sono messa il cuore in pace: resta comunque utile sapere che è di me che consigliava mi occupassi nello spazio di quell’imperativo.
Mi sembra un’ultima lezione saggia, come tutte le altre che mi ha dato, così com’era lui, senza darsi arie né troppo peso. Occuparsi di sé è un dovere gigantesco, lo so. Anche perché credo proprio che il mio attuale scatto di crescita sia anche dovuto alla presa di coscienza che le ferite di ognuno fanno male a chi sta vicino e quanto più ti si avvicina qualcuno, tanto più le tue ferite fanno male. Riconoscere le proprie ferite, distinguerle da quelle altrui, curarle. E lasciare andare, lasciar finire, ricominciare.
E poi, nello spazio di un unico pomeriggio ho incontrato fortuitamente due sessantenni che giocavano a volano in un tratto di un corso molto trafficato chiuso al traffico nel sole del dopopranzo e una vecchia signora seduta nel parcheggio di un ipermercato a mondare verdure davanti a un van aperto. Guardo come si impara una giusta lezione tutte quelle traiettorie esistenziali possibili e che deviano dalla nostra sedicente normalità.
E sto.

Ho letto tanta delicatezza.
L’entrare in punta di piedi .
Il comprendere quello che si puo’ .
Bello! Complimenti
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Grazie, mi sa che hai colto un succo che nemmeno io avevo messo completamente a fuoco, che è quel comprendere quel (poco) che si può
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