Centonovantaquattresimo compleanno di Charles Baudelaire, pace all’anima sua. La notizia passata stamattina per radio ha scoperchiato quel pentolone dove giacciono un po’ di cose tra cui i miei diciassette anni ampiamente doppiati.
Durante quei miei diciassette anni ero occupatissima a disegnare l’immagine della me che volevo gli altri vedessero guardandomi, che era in larga parte quella che in effetti volevo essere. Essenzialmente una tipa scazzata, noncurante delle apparenze, alternativa, con un’intensissima e travagliatissima vita interiore. Beata gioventù.
Sì insomma, un bel po’ di accessori esistenziali è quasi come se me li fossi scelti a tavolino con una certa lucidità.
Metti i gusti musicali. Le mie coetanee erano in balìa di una febbre semimistica intorno ai Take That. Addirittura c’era chi organizzava vacanze studio nei luoghi della protoboyband, con pomeriggi di avvistamenti alle abitazioni dei congiunti. Non faceva per me.
Non ne vado fiera, ma è stato durante una calda estate degli anni Novanta che ho deciso con freddo calcolo che mi sarei appassionata ai REM. Abbastanza americani, abbastanza underground, abbastanza rock alternativi per fare al caso mio. Ma soprattutto abbastanza celebri da avere una data del tour a Torino.
Metti poi le letture. C’è stato tutto un periodo, forse un anno intero di liceo, forse molto meno in cui andavo in giro con una specie di tascapane assemblato a partire da un sacco di patate e dei ritagli di stoffe varie con la mia amica L, in un delirio di conati antiomologativi. Dentro a quella specie di tascapane che era di una scomodità e bruttezza seconda a poche cose al mondo, ci tenevo una copia dei Fiori del Male di Baudelaire. Era una copia che veniva dalla libreria di Carla, l’amica di mia mamma. Vecchiotta, con le pagine ingiallite, ricoperta di una carta fiorata di quelle con cui le nonne foderavano i cassetti usando le puntine da disegno per fissarla al legno. La mia preferita era Élévation – un tratto importante da rispettare era la stretta lettura in lingua originale. Quella a leggerla è bella davvero, maledettamente bella.
Ho un ricordo nitido di me stessa seduta per terra con la schiena appoggiata al termosifone, durante qualche intervallo, o collettivo o assemblea di classe, mentre leggo e rileggo quelle paginette sdrucite e, contemporaneamente, mi illudo di assorbire e riemanare un po’ di spleen. Peccato che di maledetto nella mia vita ci fosse veramente poco o niente. Persino l’assenzio mi faceva schifo, con quel gustaccio di anice. Pensavo sul serio che un libro potesse consegnarmi una personalità, una specie di enorme metonimia esistenziale. Che giovane cretinetta, mi faccio persino un po’ di tenerezza.