Quando Signorina A e Mademoiselle C non erano che due pesciolini sguazzanti e di loro immaginavamo tutto e non sapevamo nulla, abbiamo seguito un bel corso di accompagnamento alla genitorialità gemellare. Non potevamo conoscere a pieno la nostra ignoranza crassa, allora. Forse ci era persino balenato il pensiero un po’ naÏf di essere pronti per quel che ci stava succedendo.
Insomma, lì, allora, una psicologa con la voce tenera e suadente di una madre di lungo corso, mi aveva chiesto che mamma immaginavo sarei stata. Incapace di trovare una categoria adeguata, ho risposto che avrei voluto essere una mamma accogliente, capace di incassare qualsiasi notizia proveniente dalla propria progenie e di accettare con sconfinato amore qualsiasi loro inclinazione umana. Insomma è probabile che mi immaginassi canuta a svenotalare bandiere arcobaleno abbracciata ad una drag durante un pride. “Sarai una mamma zen”- ha detto lei, rubricando così le mie fantasie.
I mesi e gli anni che son venuti dopo sono stati un turbinìo di cose, emozioni, tentativi, sudore, amore, inadeguatezza, sorprese. Una fabbrica dove sei operaio su tutti e tre i turni. Una fabbrica di cristalli preziosi, dove devi continuamente tentare di non rompere tutto coi tuoi passi da elefante. Una fabbrica dove mentre loro, i preziosi che hai tra le mani, si cesellano, tu operaio che cerchi a colpi approssimativi di aiutarli a far venir fuori le loro forme, non lo sai ma stai forgiando anche un po’ te stesso. Una fabbrica dove si fatica parecchio, i cristalli sanno essere spietati aguzzini. Ma mentre lavori, hai sempre di fronte la bellezza e la tenerezza e alla fine la fatica non si sa come, la si digerisce sempre.
Quando sei operaio, lì alla catena di montaggio per tante ore, occupata a fare al meglio il tuo compito, ti puoi dimenticare di chi sei, di chi volevi essere. Prendi me, io avrei voluto essere una mamma zen – mi sono detta ultimamente.
Complice il consiglio di una persona capace di dispensarne, ho rispolverato la mamma zen dalla vetrinetta dei trofei per dare una mano a Signorina A ad affrontare le sue piccole paure quotidiane. Così, quando lei dice di temere la tal situazione, mi rimetto in contatto con la me bambina per raccontare a Signorina A le mie disavventure di allora. Di quando due compagnucce un po’ troppo esuberanti mi prendevano in giro, di quando la maestra mi diceva che non sapevo disegnare, di quando mi spaventava l’idea di trovare a scuola la mia maestra spreferita invece che quella preferita, di quando temevo di essere l’ultima scelta mentre si facevano le squadre a palla prigioniera, di quando piangevo disperatamente l’ultimo giorno di mare, e così via. Okay, lo so, nel quadro che ritraggo di me appaio come una sfigatona, bullizzata, cacasotto, poco dotata per le arti figurative e pure un po’ piagnona. Però quando lei mi sorride sollevata, provo una strana felicità.
Quella gioia grassa e imprevista di farsi piccoli perché loro possano diventare grandi.
Bellissimo mamma zen….. scrivi bene e con una splendida ironia. Brava
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grazie Betty, grazie davvero!
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Staordinaria tu
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grazie Lucia, parlo di cose molto ordinarie, in cui ogni mamma mi sa che potrebbe riconoscersi 🙂
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É vero. Ma come le sai raccontare!!! 😍
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🙂
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😘
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poesia
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❤
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