Ieri, sul far della notte, mi trovavo in una posizione che riconosco classica: in piedi davanti alla credenza del soggiorno, un gomito appoggiato al piano in rovere sbiancato, la mano a reggere la testa mollemente adagiata, l’altra mano a scorrere lo schermo del telefono. Ero impegnata nella pubblicazione di una foto poetica, in cui si vedono in lontananza Miss T, Signorina A e Mademoiselle C, che percorrono una bella strada dell’entroterra ligure, un po’ nascoste dalla chioma di un olivo in primo piano. La didascalia che avevo scelta era una porzione di un vecchio post del blog, che per le necessità imposte dal funzionamento di Instagram, stavo forzatamente sfrondando. Il post, a sua volta moderatamente poetico, narrava di come, dopo la nascita di un figlio, o di più figli, si smette di essere propri e si consegna corpo, anima e tempo a loro, i nostri bambini. Non ho impiegato molto tempo a compiere questa operazione di gratificazione personale, 3-4 minuti, a occhio e croce. Allargando appena appena il campo visivo, sinora concentrato sul mio mezzobusto, sarebbe stato possibile imbattersi nella figura minuta di Miss T, la quale, abbarbicata alle mie gambe, mi pregava, ormai esausta, di accompagnarla a dormire. Una scena, come tante, di ordinario scollamento tra la gratificante idea di me (veicolata sui social, ma questo è un dettaglio, visto che la questione temo sia più radicata nella psiche che nel silicio) e una realtà un po’ più puzzolente.
Che brutto, dai, sono stati 3-4 minuti abbastanza pessimi.
Scriverne mi sbianca parzialmente la coscienza, ma dei piccoli aloni sotto le ascelle rimangono comunque.
Qualche giorno fa, nella casa di montagna, la nonna della famiglia di amici con cui dividiamo il soggiorno era intenta a preparare il pranzo. Mi è venuto naturale, quindi, alzarmi dal vecchio pavimento in legno per apparecchiare la tavola. La nonna mi ha fermata, dicendomi che lo avrebbe fatto lei. “Tu approfittane per giocare ancora un po’ con le bambine”.
Tu guarda che strano. Fermi tutti: la parola “approfittane” per me ha tutto un altro sapore. Una manciata di tempo a disposizione potrebbe significare sbrigare una commissione, concedermi una compera, leggere qualche pagina di un libro, pulire il forno, preparare un manicaretto, stendere le lenzuola. Ho realizzato che inconsciamente attribuisco alla parola “approfittane” un significato di allontanamento temporaneo dal mio ruolo di mamma.
Mi sia concesso un altro momento di tristezza di fronte a questa evidenza.
Per inciso, sono stata contenta di stare con le bambine a giocare ancora un po’ col mostro rubacalzini. Il tempo dedicato allo stare insieme, sottratto alle incombenze che mi inducono a voltare il viso altrove (verso la lavatrice, verso il disordine cui rimediare, verso Anna Karenina), è così prezioso da restituirmi un senso di pienezza che niente altro è in grado di darmi. Io che sono ossessionata dal tempo, so che loro sono la clessidra che custodisce a tempo indefinito tutti quei granellini. Scriverne non mi rende mano colpevole, certo, ma mi assicura il ricordo nel tempo di certe vitali intuizioni, che mi salvano dai minuti abbastanza pessimi delle mie incoerenze, genitoriali e esistenziali. E forse forse gli aloni sotto le ascelle sbiadiscono un po’.
Che bello questo pezzo che hai scritto ( ma quello che scrivi è sempre molto bello, è vero, la mia non è una sviolinata) Quando ti leggo mi tornano sempre cose alla memoria, cose del passato, del mio passato. La frase che ti disse la nonna, mi ha fatto tornare in mente una frase di mia nonna, quando ero adolescente e andavo a trovarla, lei stava in un’altra provincia e la vedevo un paio di volte l’anno, mi dava la “mancia” e mi diceva “Comperati qualcosa di inutile” , intendeva che non dovevo comperarmi i soliti fazzoletti, i calzini o i quaderni, ma qualcosa che di solito non potevo concedermi: un profumo, un rossetto, un flauto…
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che cara! E che bello sentirsi coccolati a quel modo!
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