Cambiano le stagioni e a me rifiorisce in testa la metafora dell’esistenza. L’inizio della primavera ha il colore dei germogli teneri, il verde timido delle prime foglioline, la consistenza fragile che contiene già l’idea dei frutti maturi.
Io, che credo di trovarmi nel verde pieno, operoso e sfacciato dell’età adulta, ricordo bene com’è essere tenero germoglio. Essere di una tonalità di passaggio, il verdino, e non saperlo. Essere capaci unicamente di vedere da una parte il marrone della corteccia bruna che eravamo prima di diventare gemme e dall’altra il colore profondo delle foglie completamente sviluppate. Non conoscere altre sfumature.
Quando assomigliavo a una foglia di faggio a inizio aprile ero, come tanti, idealista. Desideravo essere utile al mondo e all’umanità in modo totalmente disinteressato. Avevo pensieri che allora avrei definito puri. A un certo punto ho deciso che avrei cominciato a fare qualcosa per realizzare questa aspirazione.
Tra le cose che mi ero messa in testa di fare, c’era quella di accompagnare dei malati a Lourdes. Ero davvero poco più che ventenne. Ho trovato tante cose dentro a quel viaggio, a ripensarci ora, ma nel momento mi sono portata a casa praticamente solo un senso di disgusto per i negozi di santini e statuine a tema e per le dinamiche (a dire il vero particolari) che governavano le relazioni tra volontari. Una specie di gerarchia della divisa, in cui le volontarie più anziane, con decine di spilline sul velo ad attestare tutti i viaggi compiuti, facevano osservazioni aspre alle “novizie” sul come indossavano l’abito di ordinanza. Non avevo gli occhi allenati a vedere il resto, che pure c’era.
Pochi mesi dopo sono partita, sola, per il Burkina Faso. Dovevo salvare il mondo, scusate se è poco. Tra le tante cose che hanno trafitto il mio giovane muscolo cardiaco ci fu una festa di espatriati. Partita per salvare il pianeta m’ero ritrovata mezza sbronza e vestita dentro a una piscina. Che orrore, gli adulti.
Non sono diventata né cooperante né volontaria. Mi occupo per lo più della mia vita. E indosso esattamente la stessa tonalità di verde che all’epoca detestavo con onestà. Quel che è cambiato è che ho allenato gli occhi e il muscolo cardiaco a cogliere e sopportare qualche sfumatura in più. Quel che mi pare di aver capito è che l’abnegazione senza la propria felicità è un colore che non esiste. E qual che so di certo e che oggi nuoterei con molto più gusto in quella calda piscina di Ouagadougu.
Magico ciò che hai scritto è magico. Si avverte un senso di appartenenza e tanto amore nelle cose che fai – che hai fatto provandole con grande trasporto. Ciò che hai scritto è emozionante.
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L’altro giorno pensavo a una cosa simile: a quanto servirebbe mantenere l’adolescenziale capacità d’indignarci, insieme alla tranquillità nel procedere adulta.
Invece…
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Con il tempo l’occhio si allena alle sfumature, a miscelare i colori ben sapendo che l’esatta tonalità che si vorrebbe non sempre si otterrà. Però che bello scoprire tinte differenti, capire che sono comunque gradevoli e che anche le ombre servono a dare profondità alla bellezza.
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“l’abnegazione senza la propria felicità è un colore che non esiste”
Esattamente il mio pensiero (e quante chiacchiere a 17 anni prima di capirlo!)
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