C’era una volta una povera vecchina. Viveva in una misera casupola in un minuscolo paese al limitare di un bosco senza più nessuno che ci abitasse oltre a lei. Un giorno, un gruppo di escursionisti che aveva perso il sentiero alla ricerca di more di rovo, si imbatté nel piccolo villaggio fantasma e fu davvero sorpreso di vedere che da una delle finestre sventolasse uno strofinaccio bianco di bucato ad asciugare al sole. Si avvicinarono alla piccola casetta di pietre e trovarono la vecchina sulla soglia a sgranare freschi baccelli di pisello.
-Buongiorno!- sorrise lei per prima, mostrando più gengive che denti – mi avete portato notizie dei miei figli?-
– No, ci dispiace, non li conosciamo.
– Oh – disse lei con una piccola ombra negli occhi- in questo caso, faremo finta che siate voi: venite, vi preparo qualcosa da mangiare.
Detto fatto, la vecchina vestita di un consunto abitino di cotone a fiorellini rossi su sfondo celeste, stese sul tavolo di legno del cortile una tovaglia ricamata e la imbandì di pane cotto nel piccolo forno del paese che lei ancora teneva in uso, pomodori dell’orto e una calda frittata di zucchine.
– Che succede nel mondo?- chiese a un tratto sorreggendosi il viso con le mani rugose, i gomiti appoggiati al bordo del tavolo, mentre li guardava mangiare con gli occhi sorridenti.
– Succede che tante persone si sentono povere, sole e hanno tanta paura.
– Oh, e c’è qualcuno che le aiuta, queste persone, a stare meglio?
– Sì, c’è qualcuno che ascolta questi bisogni.
– Che meraviglia, ne ero sicura. E quindi le aiuta?
– Beh, per farle sentire meglio, non è che proprio le aiuti, ma tratta male chi sta peggio di loro, così che alla fine, sì, forse si sentono un po’ meglio.
– E quindi c’è anche chi sta peggio di chi è povero, solo e ha paura?
– Chi non ha niente da perdere.
– E farli star male è quel che fa stare meglio le persone? Che modo è questo di raccontare le cose?
– È il modo con cui si riesce a comunicare con le persone: parlare alla loro pancia.
– Oh, che strano modo di dire che avete: la mia pancia è il posto più ospitale che conosco. Ci ho tenuto sette figli, tutti altri da me, tutti andati lontani- disse guardando il sentiero che si perdeva nel bosco- forse parlano a qualcos’altro. La pancia è una culla, sono certa che non li ascolterebbe.
– Dice, signora? Parleranno mica al cervello?
– Oh, non credo. Il cervello è la nostra porta verso il mondo, una porta che non si lascia chiudere facilmente.
– Crede che parlino al cuore?
– Per l’amore del cielo, no!
– E quindi?
– Non credo parlino al corpo. Il corpo è tutto meraviglia, sa abbracciare, sa nutrire, sa cullare, sa avvicinarsi, sa baciare. Parlano all’aria, formano come degli invisibili nuclei di polveri di cattiveria sottile, che se non stai attento ti si annidano nel corpo, a formare cancri. Ma prima o poi, per fortuna, arriva il vento.
Fu poi ora per gli escursionisti di andarsene.
– Come possiamo sdebitarci, signora?- le chiesero, prima di salutarla.
– Tornate a trovarmi, se potete. Pensate ai bisogni come a qualcosa da risolvere e non da sfruttare. E almeno per un’ora a settimana tenete aperta la porta di casa.
Si salutarono e, mentre gli escursionisti percorrevano il sentiero che riportava al bosco, si alzò un maestoso vento che ripulì l’aria della sera.
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