Deviens ce que tu es

In Luglio ho trascorso una settimana a stretto contatto con quello che ultimamente nelle mie chiacchiere con terzi tendo a definire Nipote Numero Due. Nipote Numero Due, aka il giovane e intrepido E, ha 14 anni pieni e entro fine anno sarà un quindicenne allampanato e, devo dire, piuttosto allegro.

Credo finora di aver trascorso più tempo con Nipote Numero Uno, il bell’F, oggi quasi diciottenne, e, forse anche per il fatto che il giovane E, nei fatti, sta vivendo il grande cambiamento dell’adolescenza, mi è sembrato quasi di stare con lui per la prima volta.

Abbiamo un’abbondante generazione di differenze, 27 quasi 28 anni tra la mia e la sua nascita. E così ho scoperto alcune cose che non sapevo. Primo: le emoji su WhatsApp sono da boomer. Secondo: tutti quelli nati – grosso modo- prima del 2000 sono per un quasi quindicenne, dei boomer. Terzo: non importa che io sia a cavallo della generazione X e Y (sono grosso modo cuspide, un pelino più X che Y), se uso le emoji nei uozzappini sono boomer, amen.

A parte questo, il giovane E, in forza della quarta ginnasio a cui è sopravvissuto in modo più che decoroso, persino brillante, è tendente all’introspezione e alla riflessione filosofica, e, quindi, quando meno te lo aspetti è capace di uscire con domande del tipo: “Zia, quindi tu sei felice e realizzata” oppure “Che tipo di persona sei diventata e vuoi ancora diventare?”.

Mi sono sentita una boomer al microscopio di un centennial o digitarian, insomma uno della Generazione Z. E non mi ci sono sentita tanto male. Sempre meglio delle domande autunnali, quelle da primo quadrimestre, del tenore “Zia, chi è il tuo personaggio preferito della Grecia antica?”.

Insomma, penso di avergli farfugliato delle risposte, che poi mi sono rimangiata, per sputarne delle nuove, poi a loro volta sconfessate. Insomma, di primo acchito “voglio essere una brava persona” mi pareva perfetto. Poi però questa espressione – brava persona- mi suonava tanto da piccoloborghese che costruisce la sua tranquillità interiore sopra a comportamenti socialmente accettati che, no, ho ritrattato. Ho pensato “voglio essere felice”, il che è pienamente legittimo e vero, ma anche tremendamente egoriferito. E così, anche questa risposta me la sono giocata.

È stato lì che mi è tornata in mente quella frase ripresa da una pubblicità che avevo strappato da una rivista e appesa al letto in gioventù: Deviens ce que tu es, diceva il claim di questa nota casa francese di abbigliamento di lusso, accompagnato all’immagine di un uomo di spalle, in piedi su una piroga che navigava su acque tranquille nella luce dell’alba. Scopro oggi che quell’appello pubblicitario usava paro paro un imperativo di Nietzsche “Diventa ciò che sei”, che a sua volta si era ispirato antico poeta greco Pindaro (un caso? Sì, credo di sì, ma adesso potrei addirittura avere anche una risposta alle domande autunnali del giovane E). Anzi Pindaro dice di più: “Diventa ciò che sei, dopo averlo appreso”. Non sarà un granché, giovane consanguineo appartenente alla generazione Z, però forse da grande non sarebbe male riuscire a sapere chi sono e a diventarlo, tenendo a mente questo consiglio che attraverso i secoli, la poesie, il nichilismo filosofico, un qualche copywriter francese un po’ paraculo e le domande del giovane E mi suggerisce che il fondamento del mio io non è preordinato da sistemi ereditari, ma è in continuo cambiamento (ridaje). E il mio compito – come un po’ quello di chicchessia – è la mia conoscenza, la mia crescita e la mia trasformazione, in piena libertà. Suona egoriferito, eh, ma anche piuttosto giusto.

Incredibile come questo abbia a che fare con la mia attività di questi giorni, nei quali, oltre che cominciare a studiare per l’ultimo esame di questo mio primo anno a Scienze della Formazione Primaria, mi appresto a preparare un mio curriculum che possa essere adatto alla candidatura a supplenze nella scuola (primaria, per l’appunto). Mi riracconto dentro ad un form preformattato e cerco di raccontare la mia storia personale di modo che le brusche svolte non appaiano erroneamente come transitori colpi di testa, ma come passi di una trasformazione che dà ascolto ad una sempre maggiore conoscenza di me stessa. Ci sono tantissime cose che ho paura di sapere, ma qualche cosa piuttosto importante l’ho capita (onestamente immagino non interessi granché), ma anche qualche quisquiglia di tutto rispetto. Per esempio quello che so è che continuo a mettere le emoji nei uozzappi perché mi sembra che nella telegraficità di quella scrittura non possano essere chiare intenzioni e emozioni. Spiace, giovane E, con l’eccezione delle mie chat coi ragazzini, rimango boomer con cognizione di causa. So che continuano a piacermi di più i social dove si legge e si scrive rispetto a quelli dove girano solo immagini (che pure non disdegno, però, mmm), perché setacciando la melma si trovano anche delle perle che valgono la pena. So che mi sembra sempre bellissimo incrociare persone in gamba da cui prendere spunto e con le quali costruire squadre solidali. Se non avessi ripreso a studiare, questo non lo avrei forse sperimentato più tanto facilmente. E invece sì. E so anche che è una cosa meravigliosa che deve continuare a esistere quell’occhio con cui le nuove generazioni guardano, giudicano, uccidono e migliorano le vecchie, in un incessante desiderio di essere migliori.

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Un pensiero su “Deviens ce que tu es

  1. Io uso Wapp da poco, e sono decrepita (74 anni compiuti) Avendo imparato da sola ad usare il PC, sono ancora molto cauta in tutte le cose che faccio che riguardano questi strumenti. Non uso le “faccine”, mentre alcune mie consanguinee che potrebbero essermi nipoti, le usano a raffica, come mitragliate, da tre a sette una dietro l’altra e io, spesso, non ne comprendo il significato. Quando ero ragazzina io, io miei genitori li chiamavo “i vecchi”, a volte “trogloditi”, riferendomi all’età della pietra. Naturalmente facendo molta, molta attenzione a non farmi sentire da loro.

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