Riflettevo sull’uso del verbo “essere”. Per la verità ci penso da un po’, ma ultimamente ho accatastato così tanti pezzi di ragionamento che li sistemo un po’.
Parto dal fondo: sono arrivata alla conclusione (ovviamente parziale, come tutto quello che so) che il verbo “essere” vada usato con attenta circospezione e evitato tutte le volte che si può. Molto spesso, è salutare utilizzare dei sinonimi migliori, che, a seconda della singola circostanza, possono essere scelti tra: “avere”, “sentirsi”, “fare”. E se proprio dobbiamo utilizzarlo, penso sia meglio aiutarsi con degli avverbi.
“Faccio la trapezista” suona più onesto di “Sono una trapezista”, no?
Il lavoro lo si fa, il lavoro non lo si è.
Anche se magari è il lavoro più bello del mondo, ci sarà sempre anche qualcos’altro di preciso o magari, al contrario, ineffabile a definirci. “Sono una trapezista, bilingue, zia, nipote, puntigliosa, sarta amatoriale, umorale, biondo-cenere, moderatamente ipertesa, bibliofila, astigmatica, vegetariana, ex pianista, bisessuale, normopeso, aracnofobica, …”. Tutto questo segone mentale megagalattico comunque è perché nella vita lavorativa non ho mai trovato pace e la definizione sociale che dà il dire “sono (segue categoria professionale)” mi dà una fortissima avversione, così forte che forse, altro non è che invidia. Attendo di diventare ciò che desidero per capirlo meglio.
E poi frasi del tipo “sono stanca” suonano come una imperitura condanna, uno stato impossibile da vincere. Meglio “Oggi sono stanca”, con un bell’avverbio di tempo a dare limiti alla circostanza, oppure un onesto “Mi sento stanca”, che fa pure tanto consapevole autoanalisi.
E poi ancora nelle relazioni educative: “Quel bambino è un BES”, può capitare di sentir dire nel mondo scolastico, a proposito dei cosiddetti “Bisogni Educativi Speciali”. Capisco la rapidità dell’informazione e la necessità di utilizzare delle sigle. Però “ha un BES” non solo è corretto sintatticamente, ma diventa uno degli aspetti che definisco il bambino, non quello che è. Lo stesso vale per le malattie, per l’amore del cielo. “Sono diabetica” mette il problema metabolico al centro di chi sei. “Ho il diabete” lo relega a una delle tante cose a cui devi pensare durante il giorno; magari una delle prime, ma sicuramente non l’unica. Comunque sulla lotta alle etichette, almeno a livello teorico, vado forte da tempo (ne parlavo già in un pippone di oltre un lustro fa). Sulla pratica, invece, vado a tratti ancora maluccio: passando sotto il mio balcone mi si può sentire apostrofare una figlia a caso con un “ammazza come sei antipatica”, invece che con un serafico “stasera ti stai comportando da antipatica, tesoro bello di mamma”.
Per intanto, mentre vado avanti a rifletterci su, resto con quel poco che sono e il verbo essere lo uso lì, con parsimonia e oculata precisione.
E io ti ritrovo…..in essere bello!!
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Molto bello questo tuo articolo: hai reso interessante la banalità della quotidianità.
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